mercoledì 14 novembre 2012

PSICOLOGIA SOCIALE. RINO GENOVESE, RECENSIONE A BARBARA CARNEVALI, Le apparenze sociali, IL MANIFESTO, 13 novembre 2012


I fenomeni della moda e del design aiutano a interpretare la realtà fuori dagli angusti recinti dell'economia. Per questo vengono riscoperti autori come George Simmel e Gabriel Tarde. Il loro uso nell'analisi del capitalismo corre però il rischio di essere fagocitato da un liberalismo in cerca di idee. Un percorso di lettura a partire dal volume di Barbara Carnevali «Le apparenze sociali»





Fenomeni come la finanziarizzazione dell'economia più di recente, e il prevalere della sfera del consumo su quella della produzione da almeno mezzo secolo, hanno usurato e messo alla corda un paradigma critico-sociale basato sulla critica dell'economia politica (cioè il pensiero di Marx), la cui dipendenza dai teorici «classici» del capitalismo, dagli Smith e dai Ricardo, è diventata una zavorra più che una risorsa. Né il gioco d'azzardo «in tempo reale» sui mercati globali, né, a maggior ragione, la fruizione delle merci estetizzate possono essere ridotti al «fatto miserabile» del furto del tempo di lavoro caratteristico della fabbrica capitalistica, secondo l'impostazione marxiana, più di quanto il materialismo storico possa essere ancora visto come la teoria del fattore «in ultima istanza» determinante dello sviluppo sociale. Tutto ciò che era pura economia va ricompreso in un ambito che è quello della cultura nel suo significato antropologico-culturale, cioè come un insieme impuro, non riducibile a nient'altro se non a se stesso, di aspetti materiali e simbolici. Al vertice della sua parabola, la produzione di merci non è più affatto produzione di merci, ma diventa cultura obiettiva in senso ampio che cancella virtualmente il conflitto sociale e qualsiasi progetto di società, fissando i soggetti in un gioco a somma zero cui sembra che si possa rispondere soltanto con altra cultura: e da qui oggi il ruolo nuovamente centrale, per così dire neotradizionale, acquistato dalle religioni.
L'essenza del riconoscimentoBarbara Carnevali (con il suo Le apparenze sociali. Una filosofia del prestigio, il Mulino, pp. 222, euro 20) coglie con acutezza questa impasse del pensiero sociale legato a un'attrezzatura concettuale per lo più invecchiata, valorizzando con grande finezza interpretativa una linea di ricerca che, forte di nomi come quelli di Georg Simmel e Gabriel Tarde soprattutto, ma non solo, ha fatto dei fenomeni sociali qualcosa d'irriducibile all'economia. Tuttavia il suo lavoro (che risente in maniera rovesciata, si direbbe, della soluzione «moralistica» habermasiana dei problemi della critica sociale, con la successiva correzione del filosofo tedesco Axel Honneth mediante un'iniezione hegeliana di teoria del riconoscimento) mette capo, a sua volta, a un riduzionismo che scioglie tutti gli aspetti di un sociale trasformato in cultura - i giochi, i miti, gli usi e i costumi di un apparire che staccatosi da qualsiasi «essenza» è profondamente superficiale - in ciò che l'autrice definisce una «estetica sociale».
Non ci si sottrae al riduzionismo se ai difetti del materialismo storico e del famoso rapporto struttura/sovrastruttura, ormai insostenibile, si contrappone una sorta di motore morale della evoluzione sociale; ma neppure se ne esce se a quello e a questo si replica con una visione unilateralmente estetica. La circostanza che ogni vita sociale e politica abbia in sé un che di estetico (perfino i berretti e le austere divise della rivoluzione culturale cinese, a suo tempo, divennero una moda) non può riflettersi in una teoria che fa di un'altra determinazione in ultima istanza, stavolta in chiave antropologica, il quid di ogni ricerca.
L'antropologia filosofica (come per altri versi l'ontologia, che le è strettamente affine) blocca ciò che trova. Carnevali sembra accorgersene quando a una fisiologia estetico-sociale, che consisterebbe nel normale svolgersi delle apparenze, oppone una patologia, aprendo così a una prospettiva di critica sociale su cui lavorare in futuro. Ma il fisiologico e il patologico sono strettamente intrecciati, e in che cosa consista l'eventuale sovrappiù estetico, questa chiusura dei possibili che rende la società contemporanea una cultura quasi completamente estetizzata, l'autrice non lo dice. Anzi, a ciò non può neanche alludere per via della sua antropologia filosofica di fondo, che fa dell'estetico una determinazione dell'umano in generale da prendere così com'è.
Però gli esseri umani non sono più «estetici» di quanto siano «economici»; è la comunicazione sociale che li rende una cosa o l'altra, e spesso una cosa e l'altra, a seconda dei contesti e del prevalere di questo o quel codice comunicativo. Quando si discorre di estetizzazione si parla, con accenti polemici, di una particolare versione della comunicazione sociale basata sul suo codice banalmente estetico (ossia sull'elementare giudizio di gusto «mi piace/non mi piace», già diverso da quello più elaborato tipico dell'arte, che mette in gioco la distinzione tra il bello e il brutto).
Nel mondo delle differenzeCarnevali, in virtù della sua impostazione teorica, non può nemmeno cogliere la differenza tra l'estetizzazione della vita quotidiana e le opere d'arte, ridotte quindi a ornamento, perché sia l'una sia le altre - sia Marilyn come icona sia la sua riproduzione seriale in Warhol - sono sostanzialmente la stessa cosa; e così anche l'estetizzazione di marca totalitaria e la sua diffusione di tipo consumistico nella cosiddetta società del benessere fanno parte di una stessa «estetica sociale», senza differenze troppo sottili di regimi politici: paradossale conseguenza, questa, sia pure non voluta, di un discorso che aveva preso le mosse dalla critica di una critica per sua natura indifferenziante come quella di Debord e della sua «società dello spettacolo».
I problemi teorici della critica sociale possono trovare una soluzione articolando e facendo interagire coerentemente tra loro i concetti di differenziazione e di de-differenziazione: è indubbio, per esempio, che nel mondo contemporaneo ci siano forme di gerarchizzazione delle differenze tra gli individui e i popoli (si pensi al razzismo sempre serpeggiante), che sono soltanto una forma, e certo non la meno innocente, della differenziazione possibile; ma al tempo stesso è altrettanto indubbio che le differenze tendono a sfumare sotto culture, pur tra loro diverse, che rivestono tuttavia le caratteristiche olistiche, ovvero virtualmente totalizzanti, proprie di ogni cultura. Anche nella innegabile diversità interna, il mondo in generale non è poi così vario.
La mancanza di un doppio sguardo, il solo capace di aprire i possibili, è particolarmente evidente in Carnevali nella discussione intorno all'acquisizione di prestigio e stima come momenti centrali nel muoversi delle apparenze sociali. Nel suo libro si legge: «Ogni sistema pubblico di concorrenza segue il modello della borsa-valori: il successo dell'uno coincide con la sconfitta dell'altro, dal momento che la stima può essere distribuita solo in modo gerarchico». Qui non c'è solo una contraddizione con il modello teorico proposto dall'autrice - l'aspetto «estetico» viene letto nella maniera ristrettamente competitiva dell'homo oeconomicus e nei termini di un titolo in borsa -, ma dall'idea gerarchica della stima traspaiono anche la chiusura dell'orizzonte e il cedimento all'esistente. Una visione capace di differenziare, invece, non gerarchizzerebbe necessariamente: un cuoco stimabile non è migliore di un altro altrettanto stimabile che fa una cucina diversa. Stabilire gerarchie è una modalità dell'apparire sociale, quella predominante oggi, ma nient'affatto l'unica. Da scivolamenti come questi, si comprende perché un testo, pur così ricco di spunti potenzialmente critici, possa diventare un appetibile boccone per un pensiero liberale a corto d'idee.

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