giovedì 27 febbraio 2014

ANTROPOLOGIA. UN SAGGIO DI LEVI-STRAUSS. R. ANTONELLI, Lévi-Strauss, alle origini del simbolico, IL MANIFESTO, 27 febbraio 2014

La recente pub­bli­ca­zione di un sag­gio di Claude Lévi-Strauss dal titolo La socio­lo­gia fran­cese. Dalle ori­gini al 1945 (Mime­sis), a cura di Fabri­zio Denun­zio, con­sente di riflet­tere ancora una volta sui fon­da­menti di quello strut­tu­ra­li­smo che ha segnato e, in parte, con­ti­nua a segnare l’attuale dibat­tito delle scienze sociali. Nono­stante oggi, in quasi tutte le scienze sociali, i para­digmi «indi­vi­dua­li­sti» siano egemoni.




Dif­fi­cile cre­dere nella com­pleta vali­dità dello strut­tu­ra­li­smo che non con­sente di spie­gare il muta­mento né di cogliere quella ambi­va­lenza del mondo sociale che fonda la pos­si­bi­lità e la realtà stessa dei pro­cessi di eman­ci­pa­zione: tut­ta­via, è inne­ga­bile che l’agire dell’uomo in società non avvenga nel vuoto né sia casuale ma legato a «schemi» men­tali e rela­zio­nali con­di­visi da altri, che si ripe­tono nel tempo. Le «strut­ture», appunto, con cui occorre fare i conti – rifiu­tando il deter­mi­ni­smo – per costruire qua­lun­que pra­tica rifor­mi­sta o rivoluzionaria.
Ma qual è l’origine teo­rica di que­sto ter­mine e del suo uso nelle scienze sociali? Cer­ta­mente esi­stono più per­corsi filo­lo­gici ma uno dei più impor­tanti è quello che passa per l’opera di Lévi-Strauss, uno dei mas­simi antro­po­logi del Nove­cento, che finì per assu­mere il con­cetto di strut­tura come una serie di mec­ca­ni­smi incon­sci che agi­scono nel fun­zio­na­mento stesso della mente umana, indi­pen­den­te­mente dall’epoca sto­rica con­si­de­rata. Due sono le fonti dalle quali Lévi-Strauss costrui­sce il suo pro­gramma strut­tu­ra­li­sta, desti­nato ad influen­zare sia la filo­so­fia neo-marxista (Althus­ser) sia la psi­coa­na­lisi post-freudiana (Lacan) degli anni ’50 e ’60: la lin­gui­stica fran­cese e ame­ri­cana e la socio­lo­gia risa­lente a Dur­kheim, uno dei padri fon­da­tori della disciplina.
Il sag­gio curato da Denun­zio con­sente di far cono­scere al let­tore ita­liano una tappa spe­ci­fica dell’elaborazione di Lévi-Strauss, per l’appunto ricon­du­ci­bile al filone socio­lo­gico. L’antropologo fran­cese scrive La socio­lo­gia fran­cese durante il suo for­zato sog­giorno ame­ri­cano (sono gli anni della guerra) per un volume col­let­ta­neo curato dal con­na­zio­nale Geor­ges Gur­vitch (con cui entrerà in pole­mica alcuni anni dopo) e Wil­bert E. Moore, Twen­tieth Cen­tury Socio­logy, pub­bli­cato nel 1945 a New York. Come segnala Denun­zio, nel sag­gio di Lévi-Strauss si respira l’atmosfera di quei cir­coli cul­tu­rali di esuli euro­pei, come la New School for Social Research (che riu­ni­sce molti scien­ziati sociali di ori­gine tede­sca) e l’École Libre des Hau­tes Étu­des (fre­quen­tato dai fran­cesi), così che la sua pre­sen­ta­zione dei socio­logi fran­cesi del periodo della Prima guerra mon­diale (in cui lo stesso Dur­kheim perse il figlio) ha il sapore di una let­tura attua­liz­zata del pro­prio destino, ora che una nuova guerra era ormai scoppiata.
Per l’antropologo fran­cese, innan­zi­tutto, la socio­lo­gia del suo paese pos­siede un valore che va al di là del campo della disci­plina: ciò si deve a Dur­kheim e alla sua scuola che influen­za­rono l’economia, la geo­gra­fia, la sto­ria e l’etnologia, cre­sciuta con la socio­lo­gia stessa. Fu il vero fon­da­tore della socio­lo­gia scien­ti­fica, poi­ché richiamò l’attenzione sia sull’importanza e il pri­mato del gruppo, della sua con­for­ma­zione, nello spie­gare l’agire delle per­sone (strap­pando que­sto argo­mento al campo rea­zio­na­rio cat­to­lico, alla Louis de Bonald); sia per l’elaborazione di un metodo di stu­dio empi­rico della società. Tut­ta­via, a parere di Lévi-Strauss, Dur­kheim era legato ancora alla tra­di­zione filo­so­fica, alla sua ten­denza a costruire inde­bite gene­ra­liz­za­zioni e, soprat­tutto, era pri­gio­niero di una con­trad­di­zione fon­da­men­tale. Quella tra indi­vi­duo e società: Dur­kheim non cono­sceva ancora i risul­tati della nuova psi­co­lo­gia freu­diana (l’inconscio) e que­sto lo con­du­ceva a con­si­de­rare la sola atti­vità cosciente dell’uomo.
Per Dur­kheim la sto­ria era un fluire di eventi men­tre la mente dell’uomo è ordi­na­trice. In mezzo sta la Società che è il frutto dell’attività cosciente degli indi­vi­dui che appar­ten­gono ad una col­let­ti­vità: allo stesso tempo, «pro­dotto» e «cosa», quasi un’entità meta­fi­sica dun­que. Il vero espo­nente di una socio­lo­gia scien­ti­fica pie­na­mente matura, legata a dop­pio filo all’etnologia, è così Mar­cel Mauss, nipote e col­la­bo­ra­tore di Dur­kheim nella pre­pa­ra­zione del suo grande capo­la­voro Il Sui­ci­dio. Stu­dio di socio­lo­gia (1897). In Mauss, quasi nel suo metodo legato all’esame minu­zioso di un sin­golo fatto sociale piut­to­sto che del Tutto, come dimo­strato nel famoso Sag­gio sul dono (1923), si trova una parte dell’ispirazione strut­tu­ra­li­sta di Lévi-Strauss: Mauss, con Dur­kheim, crede e dimo­stra l’universalità della mente umana, per cui non vi è dif­fe­renza su que­sto piano tra «pri­mi­tivi» e «uomini civi­liz­zati» (come invece cre­deva Levy-Bruhl).
A dif­fe­renza di Dur­kheim, Mar­cel Mauss da molta impor­tanza ai sim­boli e come que­sti sono creati e incor­po­rati nelle menti delle per­sone per far vivere la «società» secondo regole gene­rali. Il ruolo del sim­bo­li­smo e la sua uni­ver­sa­lità che si mani­fe­sta in ogni atti­vità sociale e cul­tu­rale: que­sto sarà pro­prio uno dei grandi temi della ricerca di Lévi-Strauss negli anni suc­ces­sivi alla Seconda guerra mon­diale. Un tema dalle ori­gini socio­lo­gi­che che risco­priamo, così, già in fase di avan­zata ela­bo­ra­zione nel 1945, gra­zie pro­prio a que­sto bel sag­gio curato meri­to­ria­mente da Fabri­zio Denunzio.

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