martedì 4 febbraio 2014

MODERNITA' ED EROI. S. JOSSA, Totem di se stessi, IL MANIFESTO, 4 febbraio 2014

hi sono gli eroi? Eroe è cer­ta­mente Nel­son Man­dela, che ha gui­dato il popolo suda­fri­cano alla libe­ra­zione dall’apartheid e alla con­qui­sta della demo­cra­zia, ma eroe è anche Michael Schu­ma­cher, che ha saputo emo­zio­nare le folle con le sue imprese in For­mula Uno.
Marco Revelli ha soste­nuto su Repub­blica del 23 dicem­bre scorso che abbiamo biso­gno di eroi, per­ché sono coloro che resi­stono all’infelicità e al male di cui l’umanità e la sto­ria sono intrise, i caduti all’inferno che acce­dono infine al cielo, le mosche bian­che che sanno mostrare la medio­crità morale del con­for­mi­smo di massa, «quelli che con­ti­nuano testar­da­mente a tener fermo il pro­prio dovere in un con­te­sto di dif­fusa e pre­va­lente cor­ru­zione, ser­vi­li­smo, ille­ga­lità». Gli ha fatto eco Anto­nio Pen­nac­chi sul dome­ni­cale del Sole 24 Ore del 5 gen­naio di quest’anno, quando, a pro­po­sito di Schu­ma­cher, ha affer­mato che «quelli che vanno in cerca di guai ci ser­vono come il pane, svol­gono una fon­da­men­tale fun­zione cosmica, prima ancora che sociale», per­ché «se non fosse per loro sta­remmo ancora – come tutte le altre scim­mie – sopra una pianta nel cen­tro dell’Africa, a man­giare ignudi le banane».



Fra le stelle e le tombe

Cos’è que­sto biso­gno di eroi­smo che si dif­fonde da più parti, acco­mu­nando la poli­tica e lo sport in una stessa reto­rica? Eppure già duecentocinquant’anni fa il grande filo­sofo Gio­van Bat­ti­sta Vico li guar­dava con dif­fi­denza, gli eroi, quando spie­gava che la loro età era pre­ce­dente all’età degli uomini, pre-storica: più vicini agli dèi, prima che l’uomo cono­scesse il pec­cato e la deca­denza, o alle bestie, al di qua della civiltà e del progresso?
Cer­ta­mente non umani, gli eroi nella pro­spet­tiva vichiana sono più disu­mani che sovru­mani: vivono tra le stelle e le tombe gli eroi, scri­veva chi se ne inten­deva, lo scoz­zese Tho­mas Car­lyle, cui si deve il libro fon­da­men­tale sull’argomento, On Heroes, Hero-Worship and the Heroic in History (Gli eroi, il culto degli eroi e l’eroico nella sto­ria, 1841). Ad acco­mu­nare Man­dela e Schu­ma­cher c’è cer­ta­mente il con­fronto con la morte, a favo­rirne il monu­mento nel primo caso e a deter­mi­narne la lotta nel secondo: l’eroe è colui che si scon­tra col limite, oltre­pas­san­dolo verso l’eterno o resi­stendo per eternarsi.
L’eterno: qui è la trap­pola degli eroi. Pro­iet­tati in una dimen­sione che non ci appar­tiene in quanto umani, gli eroi saranno sem­pre, e per sem­pre, qual­cosa di più di noi, ma anche qual­cosa di meno: ci sono supe­riori, ma hanno per­duto ciò che rende bello l’essere umani, la vita. Tra­sfor­mati in astri o rico­perti di terra. Non potranno cam­biare, per­ché sono per­fetti e com­piuti; ma come non potranno deca­dere, così non potranno miglio­rare. Sono lì, monu­menti a se stessi e all’idea di eroico. Tote­mici, come il Robin Hood pro­get­tato da un miliar­da­rio inglese per le col­line di Not­tin­gham, una sta­tua di cento metri che dovrà essere più alta della sta­tua della Libertà e dell’Angelo del Nord. Potremo ammi­rarli, allora, gli eroi, ma mai con­fron­tarci con loro, per­ché non ci stanno di fronte: sono lassù, nell’Olimpo degli dei, dove non vive l’umano, ma vige l’ideale. Rap­pre­sen­ta­tivi di un’idea, dalla libertà al corag­gio, piut­to­sto che por­ta­tori di una sfida.
Erano semi­dei, infatti, all’inizio, gli eroi: a metà tra l’uomo e il dio, capaci d’innalzarsi al di sopra della terra, ma con i piedi ancora ben pian­tati e saldi. Pro­prio stac­can­dolo da terra Ercole riu­scì a scon­fig­gere Bria­reo: l’eroe era colui che non per­deva il con­tatto col suolo. Di fronte a un Olimpo popo­lato da dei liti­giosi e sedut­tivi, libi­di­nosi e men­zo­gneri, appas­sio­nati e diver­titi, come quello degli anti­chi, i semi­dei non veni­vano meno alla loro uma­nità, ma la esal­ta­vano in chiave esem­plare per farsi lezione di slanci e fan­ta­sie, sfide e inse­gui­menti. Ago­ni­stici: eroi che com­bat­tono e con cui si può com­bat­tere, pro­prio per­ché sono un po’ meglio di noi, ma di noi qual­cosa conservano.
Venne poi il tempo dell’antieroe, sepa­rato e soli­ta­rio: non più il grande cam­pione, che si erge al di sopra degli altri idea­liz­zando l’umano senza negarlo e riven­di­can­done quindi le sfide, ma colui che la società respin­geva per­ché non si con­for­mava al volere dei più, l’emarginato, l’escluso, l’outcast, più vicino alla natura che agli uomini. Era nato l’eroe roman­tico, iso­lato e indi­vi­dua­li­sta, geniale e misco­no­sciuto, anti­e­roico ma già modello, quindi di nuovo eroe: dotato di indi­scu­ti­bile poten­zia le di lea­der­ship, ma anche capace di rac­co­gliere intorno a sé i fal­liti, i timidi, i disa­dat­tati e i medio­cri, col para­dosso di giu­sti­fi­care l’inadeguatezza con la pre­sun­zione di una supe­rio­rità incom­presa e desti­nata a un rico­no­sci­mento postumo.
Di fronte all’emergere delle masse, che impo­ne­vano omo­lo­ga­zione e rin­corsa, l’eroe si rita­gliava lo spa­zio della dif­fe­renza, l’esclusiva della distanza, l’orgoglio dell’unicità. Come Esaù e Ismaele, rinun­ciava al suc­cesso mon­dano per inse­guire il divino. Non era dif­fi­cile l’incontro tra que­sto eroe e chi cer­cava il pro­prio regno al di fuori di que­sta terra: il sacri­fi­cio dell’umano nel nome di una verità che è altrove, la nega­zione della vita alla ricerca di un’altra vita e la mor­ti­fi­ca­zione del corpo per esal­tare lo spi­rito sal­da­vano in un abbrac­cio letale tita­ni­smo roman­tico e misti­ci­smo cri­stiano. L’eroe si con­giun­geva col suo para­digma, spos­ses­sato della carne e ridotto a idea: beati i poveri di spi­rito, per­ché loro è il regno dei cieli, come se i poveri di spi­rito fos­sero gli stolti anzi­ché gli umili.
All’eroe suben­trava allora il pro­feta, che annun­ciava l’avvento dell’eroe per costruirsi il pro­prio. Non più il genio per­dente, sepa­rato ed escluso dalla folla, ma colui che illu­mi­nava le masse dall’alto: l’eroe diven­tava lea­der, prima della sto­ria poi della poli­tica. Se Car­lyle ed Emer­son cele­bra­vano i grandi eroi che ave­vano fatto la sto­ria dell’umanità, con le parole e con l’azione, Sha­ke­speare e Goe­the, Crom­well e Napo­leone, Max Weber esal­tava l’eroe cari­sma­tico, la cui «mis­sione divina» si misura «in base al fatto che giova a coloro che si danno a lui con fede».
Scon­fi­na­vano nel fasci­smo e nel nazi­smo, que­sti eroi, per­ché invi­ta­vano non all’imitazione ago­ni­stica, quella che ci spinge a seguire i grandi per svi­lup­pare la nostra pro­pria gran­dezza indi­vi­duale, ma all’imitazione ubbi­diente, a occhi bassi e capo chino: «ogni grande, ogni uomo sin­cero è per sua natura un figlio dell’ordine e non del disor­dine», scri­veva Car­lyle, glos­sato ancora più espli­ci­ta­mente dalla sua tra­dut­trice ita­liana, Pezzé Pasco­lato: «Ma non basta ammi­rare gli Eroi: biso­gna anche imi­tarli. La vera libertà con­si­ste in una razio­nale Obbedienza».

Umano, non umano

Uti­lis­simi alle masse, per­ché le abi­tua­vano a sognare, gli eroi face­vano anche il gioco di chi le masse voleva indi­riz­zarle e diri­gerle, per­ché impe­di­vano la for­ma­zione della dif­fe­renza e della sog­get­ti­vità. Lo sanno bene Revelli e Pen­nac­chi, quando invi­tano a guar­dare agli eroi come espres­sione di una élite ristretta, da con­trap­porre alla medio­crità, alla man­canza di corag­gio e all’immoralità dei più.
Finiti gli anti­e­roi roman­tici, i ribelli e i cam­pioni della sto­ria, toc­cava ai supe­re­roi, che sono coloro che pos­sie­dono un’etica supe­riore, prima dei com­pro­messi cui la vita ci costringe: tutti a loro modo fun­zio­nali a un pro­getto di pro­ie­zione verso l’ideale, per­ché ci si dimen­ti­chi delle lotte e dei pro­blemi nella realtà. L’eroe serve a garan­tire che il bene si com­pirà, per­ché l’uguaglianza, la giu­sti­zia e la libertà esi­stono, indi­pen­den­te­mente dalla loro sto­ri­cità: tra­spo­nendo l’umano sul piano dell’ideale, l’eroe fa per­dere di vista le bat­ta­glie degli uomini reali a favore di un’esaltazione col­let­tiva di tipo sal­vi­fico. Por­ta­tore di una cul­tura poli­tica pre-razionale, l’eroe va applau­dito anzi­ché seguito, ado­rato anzi­ché imi­tato, san­ti­fi­cato anzi­ché con­di­viso: sosti­tu­tivo del padre, serve a evi­tare che la massa sia fatta di uguali, spie­gava Freud in Psi­co­lo­gia delle masse e ana­lisi dell’io (1921). La comu­nità si uni­sce, urla, sbraita, si sbrac­cia e si affanna, ma l’inventore dell’eroe, il poeta epico, si fa da parte e tira i fili del teatrino.
Ad opporsi all’eroe resta solo il per­so­nag­gio, l’antieroe anti­ro­man­tico, colui che vive nelle pie­ghe della sto­ria, di sbieco e ai mar­gini, nient’affatto com­pia­ciuto o anta­go­ni­sta, ma iro­ni­ca­mente con­sa­pe­vole dello scarto tra ideale e reale: tutt’altro, insomma, che gli anti­e­roi nar­ci­si­sti della più recente auto­fic­tion, piut­to­sto gli eredi dei per­so­naggi di Musil, Piran­dello, Svevo e Bor­gese, i pro­ta­go­ni­sti di quella coscienza cri­tica del limite che tre grandi libri ame­ri­cani del dopo­guerra, The Vani­shing Hero di Sean O’ Fao­lain (1956), The Outsi­der di Colin Wil­son (1956) e The Unhe­roic Hero di Ray­mond Giraud (1957), addi­ta­vano come via alla let­te­ra­tura post-eroica, prima che Alain Robbe-Grillet prov­ve­desse a demo­lire il per­so­nag­gio come mero fetic­cio dell’autore. Né rap­pre­sen­ta­tivi di sto­rie col­let­tive né flui­di­fi­cati nella zona in cui l’uno è tutti, i per­so­naggi costrui­scono la resi­stenza del diverso in un’età di omo­lo­ga­zione, dell’individuale di fronte alla mas­si­fi­ca­zione, del bios davanti alla mec­ca­niz­za­zione, e della qua­lità quando vince la quantità.

Gul­li­ver e lillipuziani

Fin­ché, con Gia­como Debe­ne­detti, l’alternativa era tra «il per­so­nag­gio clas­sico, omo­ge­neo, com­patto, dalla sagoma d’ingombro bal­zac­chiana» e «un suc­ce­dersi di atomi psi­co­lo­gici o figu­ra­tivi o figu­rali» che pure gra­vi­ta­vano ancora intorno «a quel luogo geo­me­trico, o emblema col­let­tivo, o comune deno­mi­na­tore, che sem­brava con­ser­vare i diritti, le patenti, l’investitura del per­so­nag­gio clas­sico», il romanzo poteva con­fron­tarsi col mate­riale umano; dopo no, e non resta che il ritorno agli eroi, coi loro cor­ri­spet­tivi sol­tanto capovolti.
Man­dela e Schu­ma­cher diven­tano uguali, per­ché sono entrambi tra­spo­sti sul piano sim­bo­lico senza più alcuna rela­zione con la loro espe­rienza di lotta e sof­fe­renza, par­te­ci­pa­zione e con­flitto. L’importante è non con­fron­tarsi, evi­tare quella zona d’ombra in cui il per­so­nag­gio è tutti noi, per­ché ognuno può rico­no­scersi in lui, ma anche unico, per­ché nes­suno è e sarà mai vera­mente come lui.
A che ser­vono oggi gli eroi? Ci dicono che l’eroe è uno di noi, che rap­pre­senta i nostri sogni e i nostri ideali, che com­batte e lotta per noi, e ci basta, ci tran­quil­liz­ziamo, gli affi­diamo il nostro destino e il nostro bene: per­ché non dar­gli il potere, se è uno di noi? Solo che noi siamo nor­mali e l’eroe non lo è: è disu­mano e disu­ma­na­mente ragio­nerà. La notis­sima e cita­tis­sima bat­tuta del Gali­leo di Bre­cht, «Sfor­tu­nato il paese che ha biso­gno di eroi», va letta con quel che segue: gli eroi non esi­stono in natura, sono dei mostri, sono troppo grandi per­ché pos­sano far del bene a chi è più pic­colo di loro. Sono come Gul­li­ver nel paese dei Lil­li­pu­ziani: gigan­te­schi e inutili.

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