Studiosa e militante femminista, fra le protagoniste negli anni Settanta della campagna internazionale Salario al lavoro domestico, Silvia Federici ha una convinzione: «le idee politiche sono radicate nella produzione letteraria e filosofica». Per questo nel volume che in questi giorni presenta in Italia, La tempesta di Shakespeare fa da sfondo al suo lavoro sulla transizione capitalista e la caccia alle streghe; ciò perché «Calibano e la strega sono la coppia fatale, metafora di due momenti centrali dell’accumulazione originaria che non compaiono in Marx. Calibano è al contempo il colonizzato nel Nuovo Mondo espressione anche della colonizzazione interiore che interessa le aree dove sorge il capitalismo e insieme il corpo del proletario. Soggetto coloniale e corpo bruto che deve essere plasmato e disciplinato».
Se è l’interesse per la letteratura che ti porta a riflettere sulla figura di Calibano qual è il contesto politico e di elaborazione teorica in cui la tua elaborazione matura?
La ricerca comincia all’interno della campagna Salario al lavoro domestico, insieme a Leopolda Fortunato con cui pubblicammo nel 1984 Il grande Calibano. Volevamo rintracciare le radici della discriminazione sessuale a partire dal posizionamento delle donne all’interno del lavoro di riproduzione; un lavoro che è pilastro dell’organizzazione capitalistica ma escluso dalla produzione di salariato. Intendevamo quindi dimostrare, in contrasto tanto con il femminismo che vedeva il lavoro domestico come attività precapitalistica che esclude le donne dalla lotta contro il capitale quanto con quelle letture libertarie che vedevano la casa e la famiglia come aree libere dai rapporti capitalistici, che si trattava di una costruzione specifica imposta dallo stato e dalle classi dominanti. Non un’attività naturale né un lavoro d’amore ma è un’attività funzionale al mercato del lavoro e alla riproduzione della forza-lavoro, di cui abbiamo voluto fornire una documentazione storica. Per altri versi, si trattava di applicare, in un momento storico segnato da lotte operaie e soprattutto anticoloniali, la lezione del movimento femminista: non si comprende cosa è il capitalismo se non si guarda al processo di riproduzione della forza lavoro.
Così ho ripercorso a ritroso la storia del capitalismo fino al medioevo, rintracciando le ragioni storiche e la logica che ha animato la transizione, a cominciare dal suo rapporto con la riproduzione. Io ho amato molto Marx , ritengo indispensabile il suo lavoro ma ho sviluppato un atteggiamento critico rispetto alle ipotesi sull’accumulazione originaria, perché ha l’occhio puntato sulla fabbrica, sulla produzione delle merci, mentre manca un discorso sulla riproduzione. Ho invece verificato che tra il Cinquecento e il Seicento la produzione delle merci per il mercato e la riproduzione della forza lavoro, strettamente lagate nell’economia feudale di sussistenza, si separano, diventando ciascuna portatrice di uno specifico rapporto sociale. La riproduzione si femminilizza, la produzione per il mercato di maschilizza e configurandosi come rapporto salariato sarà l’unica ad essere riconosciuta come lavoro.
Anche nel tuo lavoro dunque, come in Marx, il salario gioca un ruolo dirimente nell’organizzazione e gerarchizzazione del lavoro. In particolare nel libro ricorri alla categoria di «patriarcato del salario», dove indiscutibilmente classe e genere si articolano insieme. Di cosa si tratta?
È il comando dei salariati sui non salariati che accompagna l’invisibilizzazione del proletariato femminile e la naturalizzazione della riproduzione. Con il passaggio al capitalismo cambiano anche i rapporti patriarcali. Restano le tradizionali differenze di potere tra uomini e donne ma assumono basi diverse: il salario diventa lo strumento che costruisce e garantisce la subordinazione delle donne: ciò che ora conferisce al maschio il potere di comandare il lavoro della donna. Se prima la donna e il suo lavoro dipendevano direttamente dal signore feudale ora il capitale e lo stato, dietro al ricatto dell’amore e della vicinanza nella famiglia, delegano al lavoratore salariato il comando sul lavoro della donna. E, come con il servo, la frusta diventa lo strumento di garanzia del comando: dove mancano gli incentivi economici è la violenza che prevale come metodo di disciplina.
Più complessivamente, possiamo dire che la stessa separazione tra produzione e riproduzione ha richiesto un massiccio ricorso alla violenza; ne è prova la caccia alle streghe che, analizzando la cosiddetta accumulazione originaria dal punto di vista della riproduzione, individui come dispositivo imprescindibile per imporre le trasformazioni necessarie a una nuova organizzazione del lavoro …
Guardare alla transizione dal punto di vista della riproduzione ha permesso di decifrare la caccia alle streghe, svelando il significato intrinseco di accuse tanto fantasiose quanto assurde, mosse contro le donne da un’intera comunità di uomini politici che sembravano colti da un processo di follia collettiva. Tutt’altro che irrazionali, invece, quelle accuse puntavano a creare un nuovo modello di femminilità e nuovi comportamenti sociali più congeniali alla disciplina capitalistica del lavoro salariato. La caccia alle streghe colpisce innanzitutto la solidarietà alla base del mondo medievale e mette al bando l’aiuto reciproco. Non a caso si stava affermando l’ottica protestante con la sua etica del lavoro e della responsabilità individuale. Anche le forme di carità e il mutualismo tipiche del villaggio medievale vengono bandite. Così, spesso, la strega è la donna anziana espropriata dei mezzi per la sua sussistenza che manda improperi contro chi le rifiuta la carità o se scoperta a rubare.
Altre streghe sono donne che hanno relazioni extramatrimoniale ora sanzionate a salvaguardia dei rapporti di genere dentro la famiglia, mentre la stessa sessualità femminile viene criminalizzata come forza pericolosa che può minare i rapporti di classe (nel caso della serva che si unisce con il padrone) e l’etica di un lavoro che diventa sempre più uniforme e regolato. Le accuse di infanticidio possono invece essere lette a partire dalla grande fame di lavoro del tempo che avvia, come anche Marx scrive, un vero e proprio processo di accumulazione di proletariato. Anche se poi Marx non vede l’interesse del capitalismo per il corpo della donna come macchina di riproduzione, produttore di forza-lavoro e nuovi lavoratori. Analoga matrice ha la persecuzione delle donne che praticano l’aborto (fin lì tollerato) o la diffusione di informazioni sulla contraccezione, sull’uso delle erbe e delle piante mediche nonché la messa al bando dei saperi di levatrici e medicotte che avevano fin lì goduto di un indiscusso potere sociali. Più in generale, allora, guardare al capitalismo dal punto di vista della riproduzione ha permesso di leggere a fondo i processi per l’affermazione del capitalismo; cosa che torna oggi utilissima mentre assistiamo a un nuovo processo di accumulazione, iniziato intorno alla fine degli anni Settanta come risposta alla stagione di lotte del decennio precedente.
Veniamo allora al presente, quali processi di «enclosures» in questa rinnovata fase di accumulazione interessano le donne, il loro corpo e la sfera della riproduzione?
Stiamo assistendo a una massiccia riorganizzazione del lavoro di riproduzione e a un nuovo intervento dello stato sul corpo delle donne, in forme diverse, anche contraddittorie. Oggi la situazione è inversa rispetto al 16° secolo, con oltre due milioni di lavoratori che si sono riversati sul mercato del lavoro globale a seguito della ristrutturazione produttiva e dei programmi di aggiustamento strutturale. E, l’intervento dello stato sul corpo delle donne si differenzia. In alcuni casi si proibisce l’aborto o si cerca di limitarlo, in altri le donne vengono sterilizzate. È il caso, negli Usa, delle cosiddette donne del welfare o delle afroamericane all’interno del sistema carcerario o ancora delle donne nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo in un processo di sterilizzazione con una forte connotazione politica, ovvero come limite alla crescita di una popolazione che si era rivelata estremamente combattiva nelle lotte anticoloniali oppure potenzialmente pronta a rilanciare la lotta come ad esempio nell’America latina degli anni Novanta.
Oggi dunque, lo stato e il capitale intrevengono arrogandosi il diritto di decidere chi può e chi non può riprodursi, chi può nascere e chi no. Contemporaneamente le donne sono state incentivate a mettere sul mercato non solo la loro sessualità ma anche la funzione generativa, come nel caso della maternità surrogata che ha aperto in Itala un acceso dibattito. Il movimento femminista nella sua gran parte, e ad eccezione delle frange più emancipazioniste, ha condannato la surrogacy come istituzionalizzazione delle gerarchie di classe, una forma di alienazione a cui le donne si sottopongono a causa della loro mancanza di risorse; e al contempo uno strumento per rilanciare una figura della donna come vaso da fiori, una donna passiva, donna utero. Io non parlerei di libertà di scelta sul proprio corpo, perché l’unica libertà che il capitale dà alle donne rispetto al corpo è venderlo. Pensando dunque al dibattito italiano credo che vadano distinti i piani: una cosa è il diritto delle coppie omosessuali ad avere dei figli che è una battaglia sui diritti soggettivi, altro è la surrogacy, un processo perverso che degrada la donna. Una forma peculiare di schiavitù. La mercificazione completa della vita e del corpo della donna, la sua sottrazione ed esproprio. Cosa che esplicita tutta la violenza del capitalismo e ci rimanda indiscutibilmente alla cosiddetta accumulazione originaria.
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