lunedì 25 marzo 2019

SPIRITUALISMO FILOSOFIA RELATIVISMO ANTROPOCENTRISMO. E. BENCIVENGA, Recensione a M. Buber, Il problema dell'uomo, IL SOLE 24 ORE, 17 marzo 2019


«Il fatto fondamentale dell’esistenza umana è l’uomo con l’uomo. Ciò che caratterizza in modo peculiare il mondo degli uomini è innanzi tutto il fatto che qui, tra essere ed essere, intercorre qualcosa che non ha l’eguale nella natura.» Queste due frasi compaiono verso la fine del Problema dell’uomo di Martin Buber, originariamente un corso tenuto dall’autore a Gerusalemme nel 1938, pubblicato in ebraico nel 1943, in inglese nel 1947 e in tedesco nello stesso anno, tradotto dal tedesco in italiano nel 1954 e ora riproposto in un’edizione riveduta da Marietti 1820. In esse si esprime con chiarezza quel che incondizionatamente ed entusiasticamente approvo del suo pensiero e quel che ne rifiuto con altrettanta fermezza.


Quel che approvo è la sua filosofia dell’incontro e del dialogo: un incontro privo di struttura e contenuto fra due esseri che si aprono l’uno all’altro, senza qualificarsi o oggettivarsi, impegnandosi reciprocamente in modo totale e correndo il rischio di un rifiuto. L’idea di questo incontro è al centro del capolavoro di Buber, Io e tu, ed è formulata con eloquenza nel Problema dell’uomo, poco dopo le frasi citate sopra: «In una reale conversazione (in cui ciascuno parli direttamente a un altro e ne susciti l’imprevedibile replica), in una reale lezione, in un reale abbraccio, che non sia una convenzione abituale, in un duello reale, e non fatto per gioco – in tutto questo, l’essenziale si compie non nell’uno e nell’altro dei due partecipanti, né in un mondo neutro che li comprende tutti e due insieme ad ogni altra cosa, ma, nel senso più preciso, tra i due, in una dimensione che è accessibile soltanto a loro due».

Nel Problema dell’uomo, però, c’è anche dell’altro; anzi, questo libro non avrebbe ragion d’essere se dovesse solo ripetere le lezioni del precedente. C’è un percorso storico che, come si addice al contesto universitario in cui ha avuto origine, traccia lo sviluppo di un problema da Agostino a Pascal a Kant e, in epoca contemporanea, a Nietzsche, Heidegger e Scheler. Il problema dell’uomo, appunto, che però non è tanto quello dell’esperienza o della forma di vita umane quanto, soprattutto, quello dell’unicità dell’uomo, dell’assoluta novità da lui rappresentata nella natura, che lo porta a distaccarsene in modo radicale: «non c’è nulla d’umano che appartenga interamente alla natura e si possa capire solo partendo da essa. Persino la fame dell’uomo non è la fame d’un animale».

In L’uomo e/è la scimmia, incluso in La filosofia come strumento di liberazione,affermo che, sebbene Darwin abbia stabilito una continuità empirica fra il non-umano e l’umano (abbia stabilito che, di fatto, l’umano proviene dal non-umano), la sua teoria convive di solito con la fede in una netta discontinuità concettuale fra i due piani: quel che vuol dire essere umano mostra una netta differenza da quel che vuol dire essere non-umano; nel corso dell’evoluzione dall’uno all’altro si è operata una netta cesura. E osservo desolato che anche autori fra i più rivoluzionari e progressisti (cito Marx, Sartre e Lacan) hanno aderito a questa fede. Quindi mi dò da fare per dimostrare che l’umanità (il concetto di essere umano) non è che una forma altamente strutturata, sofisticata e funzionale di scimmiottamento. Il che non esclude che sia possibile e anzi opportuno studiare la natura specifica degli esseri umani, come delle giraffe, dei ragni e delle sequoie; ma vuol dire che in tutti questi casi studieremo variazioni sullo spartito di un’identica natura, senza montarci la testa pensando che prima o poi quello spartito termini e ne esordisca un altro, nuovo di sana pianta, che compete (guarda caso!) solo ai membri della nostra specie.

Ho parlato di fede, ed è una parola significativa. Chi sposa la tesi di un baratro incolmabile fra l’umano e il non-umano adotta quel che nel mio testo chiamo «creazionismo trascendentale»: crede cioé che, indipendentemente da come si sono succeduti i fatti empirici dello sviluppo organico, a un certo punto di questo sviluppo si sia realizzato un miracolo e ne sia emerso un essere inconfrontabile con tutto quel che precedeva. È naturale che una posizione filosofica del genere sia più facile da accettare per chi, anche a livello empirico (e in contrasto con Marx o Sartre), è un credente: ha fede in qualcuno degli dèi che gli esseri umani si sono inventati per sancire la propria radicale superiorità. Buber appartiene a questa categoria di pensatori: il suo Tu per eccellenza è Dio e il carattere speciale dell’umanità è tutt’uno in lui con il rapporto fra uomo e Dio. «Si era formata in me l’idea di una realizzazione di Dio mediante l’uomo; nell’uomo vedevo l’essere attraverso la cui esistenza l’Assoluto, che riposa nella sua verità, può acquisire il carattere della realtà concreta».

E qui, con decisione, lo devo lasciare, per muovermi invece verso un essere (non solo umano, ma uniformemente naturale) che sia tutto incontro e dialogo.


Nessun commento:

Posta un commento