Pelle scura e bruciata dal sole, volto rugoso, Attiya Al Hassan ci aspetta su una piccola altura. Ci stringe la mano, quindi disegna con un dito una curva immaginaria mentre osserva l’area di Khashe Zanna. «Quello è il mio villaggio» ci dice proteggendosi con una mano gli occhi dalla forte luce del sole. «Intorno nel giro di pochi chilometri – prosegue – ci sono alcuni dei 35 villaggi e insediamenti beduini che Israele non riconosce. Alcuni di quei villaggi sono lì da prima che fosse creato questo paese, eppure per lo Stato non
esistono e non hanno diritto a servizi essenziali come l’acqua potabile e la corrente elettrica». Davanti alla vista mozzafiato Al Hassan si accovaccia e ci invita a fare altrettanto. «Un tempo, prima del 1948 – racconta guardando verso Beersheva, la «capitale del deserto» – i beduini erano 110mila sparsi per i 12 milioni di dunum (1.200 chilometri quadrati, ndr) qui nel Naqab (il Neghev in arabo, ndr). Decine di migliaia furono cacciati via o fuggirono durante la guerra trovando rifugio in gran parte in Giordania. Altri sono finiti nella Striscia di Gaza. E chi è riuscito a sfuggire a quella sorte ha poi quasi sempre affrontato un destino amaro e difficile».
Sono cittadini israeliani i beduini del Neghev e parecchi di loro, a differenza dei palestinesi in Israele, svolgono su base volontaria il servizio di leva. Ciò non risparmia loro di dover combattere, ormai da decenni, una battaglia per il riconoscimento dei loro villaggi e contro i piani avviati da vari governi israeliani per costringerli ad abbandonare le terre, dove hanno vissuto per secoli, e a trasferirsi a Rahat, 80mila abitanti, la più grande città beduina al mondo e a concentrarsi nelle sette township (Hura, Tel Saba, Ararat an-Naqab, Lakiya, Kuseife e Shaqib al-Salam) create proprio per rimuoverli da terre definite come «demaniali». Attiya Al Hassan è stato uno dei protagonisti di questa battaglia. «In tanti anni – ricorda – purtroppo siamo riusciti a far riconoscere solo 12 dei 47 villaggi mentre intorno a noi sono spuntati come funghi città e insediamenti destinati agli israeliani ebrei, senza limiti di spazio. A noi invece hanno dato appena 680mila dunum (68mila ettari), ossia il 2.8% delle terre». Tra gli avversari più difficili da affrontare, prosegue Al Hassan, «c’è la commissione governativa per la questione beduina che più che ascoltare le nostre richieste e riferirle, si rappresenta come una sorta di filtro tra noi e il governo, impedendoci di far conoscere per una via diretta le nostre proposte».
Annuiscono Elianne e Odelia, due attiviste ebree del Negev Coexistence Forum for Civil Equality, una ong che appoggia la lotta delle comunità beduine non riconosciute. «È evidente che la strategia di tutti i governi è stata quella di favorire lo sviluppo nel Neghev delle comunità di israeliani ebrei e di restringere lo spazio destinato ai centri abitati beduini», spiega Odelia sottolineando che l’elevato numero di demolizioni di abitazioni e altre strutture ordinate dalle autorità nei villaggi beduini, oltre 100mila nel corso degli anni, circa 2mila nel 2020. Umm al Hiram è una delle vittime principali del Piano Prawer, presentato dieci anni fa e approvato in via definitiva nel 2013. Prevede il trasferimento di 70 mila beduini nelle township. L’attuale premier Naftali Bennett qualche anno fa fece della sua approvazione una condizione centrale per l’ingresso nel governo del suo partito. Le autorità vorrebbero trasferire gli abitanti di Umm al Hiram a Hura, per fare posto alla cittadina ebraica di Hiran. La stessa sorte potrebbe subire il vicino Atir per permettere l’espansione del bosco di Yatir. Nel frattempo, proseguono le demolizioni del villaggio di Al Araqib, divenuto un simbolo della resistenza beduina per la determinazione degli abitanti nel ricostruirlo ogni volta. Israele vorrebbe anche espandere le aree verdi nel Neghev e piantare foreste, di fatto sopra le rovine di villaggi demoliti. Così lo Stato nega i servizi di base ai 35 villaggi non riconosciuti per costringere i suoi abitanti a rinunciare alla loro terra ancestrale e a uno stile di vita legato ad antiche tradizioni.
Al centro comunitario di Tel Saba, a pochi chilometri da Beersheva, Heba Abu Hasah, studentessa universitaria e madre giovanissima di due bimbi, ha trovato il posto ideale per studiare. Vive a Bir Abu Hamam, non riconosciuto dallo Stato. «Abbiamo generatori di elettricità privati che, a causa del costo del carburante, possiamo tenere accesi solo per un certo numero di ore, in prevalenza quando scende la sera – ci spiega –, pertanto riesco ad usare ad intermittenza il mio computer. Tutte le volte che posso vengo qui, perché c’è sempre la corrente e, soprattutto, ho accesso continuo a internet, fondamentale per le mie ricerche». Il direttore del centro, Khader Abu Rustum, sottolinea che il 60% della popolazione beduina nel Neghev ha meno di 18 anni e che l’evasione scolastica resta elevata a causa anche delle difficoltà che migliaia di ragazzi hanno nel raggiungere le scuole dai villaggi non riconosciuti, per la mancanza di trasporti pubblici. «Ma abbiamo anche un 11-12% di giovani beduini nelle università – precisa Abu Rustum – nonostante i costi elevati dell’istruzione superiore e le difficoltà logistiche. A questi giovani, tra cui tante ragazze, lo Stato dovrebbe dedicare attenzione e risorse ma le cose vanno nella direzione opposta».
I beduini del Neghev guardano con scetticismo alla presenza nel nuovo governo israeliano del partito islamista Raam, sebbene il suo leader, Mansour Abbas, abbia fatto del riconoscimento di tre dei 35 villaggi non riconosciuti una bandiera della sua ultima campagna elettorale e una delle ragioni della sua alleanza con partiti di destra apertamente disinteressati alla condizione dei cittadini arabi. «Abbas non è nella condizione di poter influire nelle scelte del premier Bennett e dei vari ministri, ha ricevuto tante promesse per ottenere il suo appoggio alla maggioranza ma non credo che saranno mantenute, a cominciare dal riconoscimento dei villaggi» prevede Mohammad, 37 anni di Tel Saba. Paventa contraccolpi pericolosi Walid, di Kuseife: «Mansour Abbas forse riuscirà a strappare il riconoscimento di tre villaggi ma in cambio potrebbero chiedergli di approvare lo sgombero di quelli non riconosciuti. Avrebbe dovuto tenersi a distanza dal governo».
Ad Azzarnug, 5mila abitanti ma in giro per le sue strade non asfaltate e polverose se ne devono non più di una dozzina, non c’è alcuna aspettativa. Il villaggio resta a rischio demolizione. Però i suoi abitanti sono riusciti a costruire e a far riconoscere dalle autorità la scuola e un poliambulatorio, gli unici edifici in tutto il villaggio ben rifiniti all’esterno. «Non è stato facile ma ci siamo riusciti, grazie anche all’aiuto di attivisti ebrei» ricorda Amir Abu Queide, 30 anni con studi fatti in Germania. «Tuttavia», aggiunge «sappiamo che presto o tardi (il governo) cercherà di realizzare i piani annunciati da lungo tempo. Azzarnug non si arrenderà – avverte – la nostra battaglia non si ferma, non riusciranno a strapparci da queste terre, le sentiamo nostre da tante generazioni. Alla fine, ce la faremo».
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