sabato 3 agosto 2024

MEDIA OBIETTIVITA' PARZIALITA'. LE DUE GUERRE IN CORSO E LA LORO RAPPRESENTAZIONE. PERUCCHIETTI E., Il doppiopesismo dei media italiani sulle morti dei bambini israeliani e palestinesi, L'INDIPENDENTE, 31.07.2024

 Ogni volta che muore un bambino in un conflitto bellico, non si può che rimanere sconvolti dall’assurdità e dalla ferocia della guerra. Eppure, i quotidiani italiani, primi tra tutti la Repubblica e il Corriere della Sera, hanno deciso di adottare da tempo un doppiopesismo, quando a morire sono i bambini israeliani rispetto a quelli palestinesi. Questi ultimi, infatti, il più delle volte non hanno un nome, non hanno volto, non hanno nemmeno un numero specifico e tantomeno i “sogni spezzati” dei primi. Gli esempi di questa tendenza a usare due pesi e due misure e a comportarsi in modo contraddittorio in circostanze analoghe, sono molti e ne abbiamo visti e analizzati diversi qui, su L’Indipendente


Questa volta ci focalizzeremo su due recenti notizie, una trattata in base alla ben nota tecnica dell’empatia, tanto cara agli spin doctors, e la seconda oscurata o quantomeno limitata nella cronaca. I media italiani – giustamente – hanno dato ampio risalto all’attacco a Majdal Shams, al campo di calcio sul Golan, nel villaggio dei drusi, da parte di Hezbollah, in cui hanno perso la vita 12 giovanissimi, tra i dieci e i vent’anni. Titoli molto simili per riportare la notizia. Per RainewsAvvenireilSole24ore e il Fatto Quotidiano è una “strage di bambini”. Il quotidiano diretto da Marco Travaglio si spinge più in là, analizzando le ipotesi e, come spesso avviene, lo scambio di responsabilità. 

Emblematiche le ricostruzioni di Repubblica e del Corriere, a partire dai titoli. Fin dall’incipit, “gronda disperazione” il lungo articolo del quotidiano diretto da Luciano Fontana – che si merita la prima pagina nella versione cartacea e l’homepage in quella on line. C’è spazio per l’elenco delle giovani vittime (sono “vittime”, non semplici “morti”), corredato dalle foto di ognuna di esse nella versione on line: queste hanno un nome e un’immagine, acquisiscono consistenza, il loro sguardo colpisce il lettore come un pugno nello stomaco, mentre quelle palestinesi sono migliaia e, il più delle volte, sono senza volto. Marta Serafini raccoglie le testimonianze dell’orrore nel villaggio dei drusi dopo la strage nel campo da calcio. Si parla di “strage di bambini”, di “inferno”, di “strazio dei corpi” e si ricorda che il più giovane, Milad, aveva solo dieci anni. 

Non compare in nessuna parte della homepage del Corriere, che apre con questa notizia, invece, l’attacco israeliano che ha ucciso oltre 30 persone a Gaza, che c’è invece nell’edizione cartacea. Evidentemente le vittime palestinesi non meritano l’homepage e fanno meno rumore. Lo abbiamo imparato negli anni.

Su Repubblica troviamo la ricostruzione di Paolo Brera. È interessante analizzare il titolo dell’articolo: il soggetto è “Hezbollah” che “colpisce” un campo di calcio. 12 (il numero non è virgolettato) sono le “vittime”, di cui viene specificata la giovane età. Nella prima parte del titolo, però troviamo: Gaza, attacco su una scuola a Deir al-Balah. Hamas “30 morti”. Qua il numero delle vittime (di cui non viene indicata l’età) è virgolettato, perché essendo Hamas la fonte non lo si dà per buono (il sottotraccia del cronista è che sono terroristi, non si possono prendere sul serio, perché è probabile che mentano) e le vittime diventano semplici “morti”. Il raid israeliano è un generico “attacco”, il soggetto non è Israele, anzi non esiste proprio. In questo caso, la ricostruzione è volutamente anodina, asettica.

Politica diversa per un altro recente fatto di cronaca. Proprio il Corriere ha scelto di censurare qualche giorno prima il massacro di Israele a Khan Younis. Il 24 luglio Il Corriere si è limitato a pubblicare on line una nota dell’IDF: «Uccisi diversi terroristi nell’operazione a Khan Younis». Qua le vittime diventano magicamente “terroristi”, quindi, si giustifica indirettamente il massacro. 

Il 22 luglio, Repubblica nell’edizione cartacea monopolizzata dall’addio di Joe Biden e dal pestaggio del giornalista Andrea Jolly, l’attenzione va sulla “piovra iraniana” e sul pericolo rappresentato dagli Houthi che “minacciano l’escalation” e la sicurezza di Tel Aviv. Almeno nell’edizione on line, ripresa l’indomani sul cartaceo, il quotidiano ammette che i raid israeliani a Gaza hanno portato a “70 morti” e ricostruisce le testimonianze raccolte dall’AFP: si parla di “Corpi smembrati di bambini”. Curioso il fatto che la presenza di “bimbi tra le vittime” sia virgolettato, in quanto la fonte è palestinese e, di nuovo, non merita la stessa affidabilità della controparte israeliana. Spazio, invece, per la storia di un bambino di Gaza City, affetto da autismo e da sindrome di down, Muhammed Bhar che sarebbe morto, “ucciso da un cane dell’esercito”. 

Questi due esempi dimostrano che per sensibilizzare l’opinione pubblica su qualunque tragedia tocchi Israele (ma questo discorso si può estendere a molti altri Paesi “amici” dell’Occidente collettivo), i media di massa ricorrono alla tecnica dell’empatia per mandare in cortocircuito l’analisi razionale. L’uso del registro emotivo permette di aprire la porta di accesso all’inconscio, bypassando le difese e la soglia critica, per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori. Si sfrutta la forza delle immagini e il racconto diventa emotivo, straziante. E allora le vittime, meglio se donne e bambini vengono sbattuti in prima pagina e il loro ricordo spettacolarizzato e strumentalizzato per giustificare l’escalation o la vendetta (in questo caso) di Israele. Utilizzando foto o video, si riesce a ottenere una maggiore vicinanza col pubblico e a far leva sulle emozioni. Una volta catturata l’attenzione, si possono “incantare” e spingere le persone nella direzione desiderata. I media sanno che strumentalizzare l’infanzia serve per indignare l’opinione pubblica e creare un contatto, turbare la sensibilità e convincere lo spettatore della veridicità di ciò che si vuole mostrare. Colpire l’emotività del pubblico, evocando rabbia e disprezzo verso un fatto, aumenta la probabilità di motivarlo alla condivisione della notizia, creando le condizioni ideali per il propagarsi nella rete dell’informazione che acquisterà popolarità e, quindi, più visualizzazioni. Non solo, perché l’utente finirà per essere coinvolto emotivamente dalla notizia e per mostrarsi disponibile ad abbracciare una determinata causa sociale, politica o di altro tipo. E a legittimare financo misure draconiane o la violenza. Ovviamente, come l’Occidente ci ripete come un mantra, “a fin di bene”.

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