È con molta curiosità che questa estate sono tornato in Puglia per vedere cosa è rimasto sul bagnasciuga dopo la mareggiata del G7 in Valle d’Itria, valle in cui sono nato e cresciuto e dove, stando ai media, si sarebbe svolto il summit con i capi di stato e di governo dei sette Paesi più industrializzati al mondo, sei dei quali sono tornati a casa a capo chino, avendo constatato che saranno pure industrializzati ma, quanto a instagrammabilità, non c’è storia tra i loro tristi Paesi e le meraviglie della Valle d’Itria, la Shengri-Le pugliese, vallata immaginaria ferma agli anni Cinquanta, dove ci sono mozzarelle, masserie, friselle, focacce, ceramiche, artigiani, donne col fazzoletto in testa che fanno le orecchiette, trulli, luminarie, ulivi, pizzica o forse taranta e addirittura il mare.
In realtà, sarebbe bastato un controllo sull’internèt per scoprire che perfino Wikipedia colloca la Valle d’Itria nel posto giusto, ovvero a più di venti chilometri dal comune dove si è effettivamente svolto l’evento, Fasano, nelle cui campagne sorge un antico borgo la cui fondazione gli archeologi, servendosi del carbonio-14, collocano tra il 2005 e il 2010 dopo Cristo, epoca in cui il borgo venne riconvertito nell’hotel di lusso che ha ospitato il summit e il cui nome è pure finito sul francobollo commemorativo, con grande scuorno della popolazione fasanese.
Trovandomi a 900 chilometri di distanza dai luoghi in cui si faceva la Storia a colpi di mozzarelle e tarantelle, per sapere cosa stava succedendo dovevo affidarmi a inattendibilissime fonti locali che mi raccontavano storie di posti di blocco ovunque, contadini a cui veniva impedito di innaffiare le zucchine in zona rossa, aspiranti bagnanti cui era negato il diritto di bagnarsi, tombini controllati uno a uno e sigillati previa verifica che sotto non vi fossero vietcong o black bloc, portaerei, mezzi blindati nei tratturi, cecchini sui trulli e soldati tra gli ulivi…
Sembrava, insomma, di essere tornati indietro di 24 anni, ai bei tempi del contrabbando e dell’Operazione Primavera, un’era fa, quando la vita era più facile e si potevano mangiare anche le fragole (e, “nei mesi con la erre”, pure i ricci).
Ma la vita è un brivido che vola via, e così anche quella Puglia: oggi le masserie sono resort di lusso, i trulli abitazioni shabby chic per creativi milanesi, la terra rossa è diventata green (nel senso golfistico del termine, no ambientalista), a furia di mangiare per anni cinquanta (ma anche cento) ricci a testa nei mesi con e senza erre, è finita che i ricci si sono misteriosamente estinti, per farsi un bagno in mare tocca pagare il parcheggio, la temperatura dell’Adriatico offre la comodità di pescare orate già cotte all’acqua pazza e la sera fa così caldo che solo i dandy più irriducibili resistono alla tentazione di indossare bermuda e ciabatte per andare a cena in località dove trovare parcheggio, mangiare bene e spendere meno che a Brera diventa sempre più una bellissima utopia.
Giusto gli ulivi ultramillenari sono rimasti uguali ma è solo apparenza, visto che la xylella, dal Salento, in dieci anni è arrivata anche qui, dopo essersi lasciata dietro 22 milioni di ulivi morti e un suggestivo paesaggio postatomico ideale per girarci Lino Banfi Fury Road, spin-off della saga di Mad Max.
Insomma, manca solo la scomparsa delle lucciole ma, nonostante il termine non esistesse ancora ai tempi di PPP, si direbbe che la Puglia sia in piena gentrificazione (o «in quel momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo», per citare il Venerato Maestro), con tutti i pro (bellissimi sfondi per le fotine su Instagram) e i soliti contro (prezzi alti, casino, lunaparkizzazione ecc.), amplificati dai social che, ribaltando Lenny Bruce, hanno decretato che la realtà non è ciò che è ma ciò che dovrebbe essere.
Asfalto abbagliante
Prima che il processo porti all’inevitabile nascita della regione instagrammica di SoMO (South of Molise) sono quindi atterrato nelle terre natie, ormai terra dei Meloni, e ho iniziato a chiedere in giro cosa è rimasto dopo l’ultimo ciak del kolossal summit. La mia fonte preferita, che mi racconta sempre storie così favolose che sarebbe un crimine verificarle, mi assicura che a Brindisi, non potendo più uscire dai tombini, ancora sigillati, gli scarafaggi avrebbero cominciato a venire fuori dalle vasche da bagno, come una metafora di qualcosa o come in Demone sotto la pelle.
Uno che a Brindisi ci vive, ascoltata la storia, avanza qualche dubbio sulla sua veridicità, pur non negandone la bellezza narrativa.
Per giorni guido nelle stradine della Valle d’Itria reale e di quella immaginaria con affaccio sul mare, flaneggio nei tratturi attorno all’antico borgo in cui è stato girato il G7 ma l’unico segno rimasto è il nero abbagliante dell’asfalto nuovissimo e levigatissimo che ricopre certe strade che fino a ieri erano il risultato di una stratificazione di rattoppi, i più recenti dei quali di epoca borbonica, e su cui ora ci si potrebbe giocare a curling, come pure su certi tratturini, su cui, prima del G7, toccava fare lo slalom per non precipitare in uno dei tanti crateri di origine meteoritica, distratti dai cartelli stradali recanti la dicitura, non ironica, “percorso cicloturistico” (se era un modo per contenere il numero di visitatori, non ha funzionato).
Guidare su questi tratturi senza dribblare e sobbalzare fa impressione, quasi non sembra di essere in Puglia. Straniamento, disorientamento, nausee che, fortunatamente, svaniscono non appena sposto lo sguardo verso il bordo dell’impeccabile manto stradale, laddove la familiare distesa di sacchetti di monnezza abbandonati ai lati della carreggiata mi rassicura: «Stàttê càlmê, stè in Púglié, angòrê». Sono ancora a casa.
La modernità non ha ancora vinto, è ancora la mia Puglia, quella vera, che su Instagram non esiste, dove la bellezza dei muretti a secco, patrimonio Unesco, è da sempre impreziosita dalla pittoresca punteggiatura policroma di sacchetti di plastica, cocci di vetro, pacchetti di sigarette, piatti sporchi, lavandini, ferraglia, pile esauste, elettrodomestici, lattine, materassi eccetera.
La speranza è che, come i muretti a secco, anche la monnezza lasciata ai loro piedi diventi patrimonio dell’umanità, così da salvaguardare e proteggere questa antica tradizione, quest’eccellenza locale, esempio sublime di land art spontanea e diffusa su tutto il territorio, attraverso cui si manifesta lo spirito libero di una popolazione indomita che, nel solco dei Carmine Crocco e dei Sergenti Romano, non si piega a uno Stato che ci vorrebbe tutti omologati e, nel gettare dal finestrino il suo sacchetto di plastica con dentro le scorze dei meloni, sta in realtà scagliando verso il cielo il suo vitalistico e orgoglioso «menefrego!».
Resistenza
Purtroppo, tocca dar conto anche della rete clandestina di sabotatori che, finanziati dai poteri forti e dalle scie chimiche, da anni mette in pericolo la sopravvivenza di questa antica usanza con atti di terrorismo parareligioso che consistono nel piazzare, negli angoli di campagna più apprezzati dai lanciatori di rumenta, dei micidiali altarini votivi contenenti statue della Madonna capaci di far leva su una religiosità che, sconfinando nel profano e confondendosi con la scaramanzia, finisce per dissuadere i lanciatori, inducendoli a credere che gettare un innocuo sacchetto di pattume nei pressi di una statuetta di gesso potrebbe attirargli ire e ritorsioni mariane in stile mafioso, nell’aldiquà o, peggio, nell’aldilà.
Fa male al cuore vedere molte splendide discariche spontanee sparire per lasciare il posto ad anonimi paesaggi rurali con Madonna. Questo è dunque un appello disperato ai sette grandi della Terra, a Mattarella e al Gabibbo, perché si attivino affinché questa ultima, poetica forma di resistenza umana e di disobbedienza incivile non vada perduta: toglieteci tutto, a noi della Valle d’Itria (ovunque essa sia), il mare libero, le masserie, i ricci, gli ulivi, i trulli, ma lasciateci almeno la monnezza.
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