giovedì 15 agosto 2024

LETTERATURA E SOCIOLOGIA DEL PRESENTE. CAPOVIN R., Un gioco di specchi. Baudrillard, Houllebecq e il presente, LE PAROLE E LE COSE, GIUGNO 2017

 Se gli uomini fossero più felici nei secoli passati, questo l’interrogativo da doccia che spinge Daniel1, di professione comico, a compiere un rapido giro d’orizzonte sulla storia della nostra civiltà. Il personaggio di La possibilità di un’isola[1] riconosce che si potrebbe disquisire a lungo della difficoltà dei sentimenti amorosi, evocare l’apparizione della democrazia, la perdita del senso del sacro, lo sfilacciarsi del legame sociale. A tali temi, del resto, egli stesso ha dedicato numerosi sketch. Ma si potrebbe addirittura continuare e rimettere in causa il progresso scientifico e tecnologico, chiedendosi per esempio se il miglioramento delle tecniche mediche non sia stato pagato con una crescita del controllo sociale e una diminuzione globale della gioia di vivere. Insomma, tutto si può dire, soprattutto se si tratta di far ridere. Quello che appare incontestabile, l’unica cosa su cui non ha nemmeno senso scherzare, è il consumo: niente, in nessun’altra civiltà, in nessun’altra epoca, potrebbe essere comparato alla perfezione di un centro commerciale contemporaneo funzionante a pieno regime.


La società dei consumi è basata su questa convinzione auto-promozionale, come Baudrillard riconosce all’inizio di La società dei consumi: «Vi è oggi attorno a noi una specie di evidenza fantastica del consumo e dell’abbondanza, costituita dal moltiplicarsi degli oggetti, dei servizi, dei beni materiali, e che costituisce una sorta di mutazione fondamentale dell’ecologia della specie umana»[2].

Effettivamente, la seconda metà del XX secolo ha significato, almeno per molti europei e americani, l’uscita dalla Scarsità. Questo fatto ha sconvolto la vita materiale e psichica di milioni di individui, ma ha avuto effetti relativamente modesti sulla condotta di chi cerca di tradurre la realtà in concetti, possibilmente veri, o almeno plausibili. Certo, trattandosi di un’evidenza, quasi nessuno ha potuto fare a meno di registrare il dato, eppure relativamente pochi sono stati coloro che hanno deciso di approfondire significati e conseguenze del vivere in un mondo che era o appariva, almeno per una fetta dell’umanità, non più segnato dal ‘non-avere-mai-abbastanza’[3]. La specificità di Baudrillard consiste nel non fornire un’apologia, ma nemmeno soltanto una delle molte critiche, più o meno radicali, del proprio tempo. Baudrillard ha saputo cogliere come pochissimi altri i significati di un mondo segnato dal mito dell’Abbondanza.

Con ‘lo spirito del capitalismo’ e ‘il capitalismo come religione’[4], Weber e Benjamin usano categorie teologiche in analisi riferite a una ormai trascorsa Età del Ferro, ancora segnata da Colpa, Debito e autocostrizione al Lavoro. Per Baudrillard, la società dei consumi si manifesta sotto forma di Miracolo. Le evidenze quotidiane dell’intreccio tra tecnica e libero mercato implicano un’etica fondata sull’inversione dei principi del paleo-capitalismo: «a forza di vivere nei limiti dei propri mezzi, intere generazioni hanno finito per vivere al di sotto delle loro possibilità […]. Oggi, è nata una nuova morale: precessione del consumo sull’accumulazione, fuga in avanti, investimento forzato, consumo accelerato, inflazione cronica (fare economie diventa un’assurdità)»[5]. Tale nuovo ordine non ha più il suo fulcro nel debito e nella correlata colpa, ma nel credito e nella conseguente irresponsabilità: il consumatore vive nello sdoppiamento tra un sé attuale, destinatario casuale della Manna, e un sé futuro cui comunque si aprirà l’opzione di un’ulteriore fuga in avanti. Dopo il Lavoro, prova di Salvezza individuale, appare il Consumo, diritto universale fondato su un solo obbligo – il dover scegliere tra una pluralità di modelli.

I romanzi di Houllebecq sono ambientati in un’epoca in cui il meglio della cucina indiana e cinese distano un colpo di telefono. E come dubitare del successo di una civiltà che mette a disposizione dei suoi utenti il meglio di tutte le altre? Nei libri di Houellebecq, in effetti, nonostante tutto quello che si dice, c’è forse più cibo che sesso. Il sesso risalta nelle pagine perché estremamente raro nella realtà descritta – una realtà, in compenso, piena di roba da mangiare, o meglio, piena di menu. Non si cucina mai, e nemmeno si mangia. Si sceglie: etnico, etnico rivisitato, neo-qualcosa – perché niente più è solamente quello che è. I depressi razionali, grandi protagonisti dei romanzi di Houellebecq, hanno un motivo quasi invincibile per tirare avanti ed è la disponibilità a basso prezzo di cibo, volendo anche di ottima qualità. Non si è mai davvero a terra se si hanno due soldi in tasca e un micro-onde.

Il sesso è questione più complicata. Certo, pagando si ottiene tutto (il viaggio nel Sud-Est asiatico del protagonista di Piattaforma[6] fornisce dettagli quasi esaustivi in materia), ma la liberazione sessuale, in quanto liberazione, prometteva ben altro. Invece, il sesso descrive nella sua distribuzione una rigida gerarchia economica e sociale, non diversa da quella individuata dal cibo e da ogni altro bene posto, più esplicitamente, sul mercato. In realtà, anche l’accesso ai beni sessuali risulta subordinato alla disuguaglianza dei capitali dei singoli consumatori. In questo senso, la liberazione sessuale non ha beneficato i poveri in capitale sessuale, che esemplarmente, in Estensione del dominio della lotta[7] o Piattaforma, finiscono con l’assistere, umiliati, alla performance pubblica di due privilegiati in materia.

Per motivi analoghi Baudrillard parla del consumo come di un mito: se l’Abbondanza fosse reale e non immaginaria, tutti dovrebbero avere accesso reale a tutto quello che desiderano. In realtà, non solo non c’è l’accesso reale, ma non ci sono nemmeno i desideri, che a essere considerati con attenzione presentano la sorprendente caratteristica di non adeguarsi naturalmente all’aumentata offerta di beni. In effetti, il desiderio, lasciato a se stesso, non porta affatto verso le forme richieste di consumo, e va quindi addestrato: poter consumare non significa consumare davvero, se non si è nel frattempo instaurata una morale che accompagni formazione e indirizzamento dei desideri. Si tratta quindi di un’Abbondanza doppiamente paradossale, fondata, per un verso, sulla distribuzione ineguale delle possibilità concrete di accesso, per l’altro, sulla necessità di un vasto processo di rieducazione di massa centrato sulla ‘liberazione’ (in realtà produzione) dei desideri. Contro tutte le evidenze (un classico per Baudrillard, pensatore scettico), la società dei consumi non è una società dell’abbondanza: quello spreco collettivo che nutriva il legame sociale nelle società pre-economiche[8] è ora concesso solo sotto forma di operazione funzionale all’esigenza del mercato (vedi alla voce ‘rottamazione’).

Questa sorta di smascheramento, in linea con le performance dei più classici pensatori ‘critici’, non gioca un ruolo davvero centrale nel complesso del lavoro teorico di Baudrillard e non va comunque scollegato dalla più ampia, e ben più originale, attitudine da studioso di quell’esotica civiltà che è la nostra. Questa capacità di calarsi concettualmente in un’epoca che ci risulta opaca perché troppo vicina ha di mira soprattutto la sovranità dell’Io, quel soggetto che dimostrerebbe la propria avvenuta emancipazione anzitutto attraverso la libertà delle proprie scelte di consumo. Per Baudrillard, l’irresponsabilità cui è chiamato il consumatore è bilanciata soltanto dall’irrilevanza delle sue scelte.

Parlare di «protagonisti» nei romanzi di Houellebecq significa fare del sarcasmo. Scelte e progetti sono tendenzialmente a carico di istanze terze (pubblicità, partner, caso etc.), cui ci si rimette con gradi variabili di adesione ma comunque esibendo rarissimi segni di insofferenza, men che meno insubordinazione. Parlare di ‘servitù volontaria’ sarebbe peraltro eccessivo, mancando una volontà degna di questo nome. La logica narrativa opera nel pieno rispetto di questi soggetti dimissionari e si svolge come concatenamento di eventi, spesso del tutto casuali quanto irreversibili, che decidono i soggetti. Non c’è ‘scavo psicologico’, del resto c’è ben poco da scavare: l’io non è che il residuo svuotato da fatica e noia di una serie di interazioni, generalmente a bassissima intensità, con persone, uffici e negozi. In questo senso, la società dei consumi non perverte il libero corso dei desideri e delle volontà di individui e aggregati, ma soccorre istanze decisorie per lo più scioperate, se si eccettuano le voglie più basiche.

I caratteri associati da Baudrillard alla società dell’Abbondanza (Trenta Gloriosi) non si estinguono con l’avvento della Crisi (choc petrolifero etc.). La crisi, ‘principio fantomatico di realtà’, sarà il nuovo scenario in cui irresponsabilità e irrilevanza, individuali e collettive, continueranno a prosperare, ma sotto un diverso regime politico: «Il paradiso artificiale della destra, era l’abbondanza. Quello della sinistra oggi, è la crisi. Il suo presentimento e la sua irruzione negli anni Settanta hanno resuscitato il Partito socialista dopo che si era creduto alla sua morte definitiva. Ed è essa che resta la sua migliore chance di sopravvivenza»[9].

La Sinistra va al potere (in Francia, nel 1981) quando, anzi perché, tutte le energie di rottura presenti nella società sono esaurite. I residui del Sessantotto, portatori di una radicalità poetica più che politica (cui Baudrillard rimarrà nel complesso fedele), hanno ritardato l’avvento dei socialisti, ora perfettamente adeguati ai tempi:

Non saremo mai abbastanza grati agli Arabi del loro colpo di forza, o di scena, petrolifero, che ci ha immersi di nuovo nella penuria, quindi nella crisi, quindi in una nostalgia perpetua della crescita. I benefici effetti di ciò si sono fatti immediatamente avvertire: un supplemento di moralità si è impadronito collettivamente delle nazioni occidentali e la credibilità dei dirigenti, un po’ dappertutto scossa dopo i soprassalti degli anni Sessanta, è uscita largamente rinvigorita dalla gestione della crisi. Mettendo fine all’utopia energetica della crescita, gli Arabi ci hanno reso l’energia simbolica, quella dell’austerità e della penuria[10].

Questa sinistra è detta da Baudrillard ‘divina’ perché punta a riconciliare ordine politico e bisogni sociali ‘autentici’. Il Partito Socialista si pone come partito della virtù, intesa quale prolungamento delle sane esigenze e dei probi comportamenti che caratterizzerebbero un sociale che è invece, per Baudrillard, irriducibilmente attraversato da vizio e male. Come nella Favola delle api di Mandeville, più volte citato, la virtù senza vizio è destinata alla rovina. La sfida politica dei socialisti, in quanto purificazione della politica per corrispondere alla purezza del sociale, è quindi ingenua e destinata allo scacco.

Questa alleanza arabo-socialista stretta sotto il segno di virtù fittizie è molto vicina all’oggetto della fiction politica delineata da Houellebecq in Sottomissione[11], dove un partito islamico moderato giunge al potere grazie a un patto con il Partito socialista. Qui è direttamente una religione a offrire appiglio alle pretese di divinità del nuovo ordine, che fonda peraltro il suo successo su motivazioni tutt’altro che pie. Alla base della presa del potere sta, infatti, un’acquiescenza di parte consistente dell’elettorato maschile laico, oddio, in realtà più lussurioso che laico: lo scambio che viene immaginato è ubbidienza formale in pubblico contro la possibilità di un dominio domestico su una pluralità di donne sottomesse. I ‘quadri’ della società francese passata in rassegna, come si dice, hanno fatto i loro calcoli e sono giunti alla conclusione che, perché no?, la nuova Virtù governa sdoganando il Vizio, prima vincolato al mestiere più antico del mondo. La sottomissione politica, che ha scandalizzato o entusiasmato soprattutto torme di non lettori del libro, è accettata in forza dei benefici apportati dalla sottomissione sessuale. Un potere che si pretende virtuoso, ma che in realtà è pronto a tutti i tipi di compromessi perversi con il potere economico e finanziario, è visto come lo sviluppo coerente di una società (occidentale) profondamente marcia.

Queste nuove disavventure della Virtù in salsa politica hanno confermato Houellebecq nel ruolo di ‘nemico pubblico’ di una larga parte dell’opinione pubblica francese ‘di sinistra’. Lo stesso Houellebecq afferma di avere, stando almeno ai riscontri avuti facendo una rapida ricerca su Google, gli stessi nemici di Bernard-Henri Lévy, intellettuale impegnato soprattutto nell’anti-gauchismo (nonché bersaglio di varie uscite di Baudrillard contro i nouveaux philosophes). Tra questi nemici spiccano vari siti di ultra-sinistra, che dimostrerebbero come la collusione contro-natura tra radicalismo politico e islamismo radicale sia una realtà[12].

Qui la discontinuità rispetto a Baudrillard è, o pare, evidente. Nonostante siano numerose le critiche ‘da sinistra’ rivolte a singoli aspetti della sua opera, Baudrillard rimane generalmente collegato all’ampia galassia dei pensatori critici (cioè, a parte eccezioni non trascurabili ma trascurate, di sinistra). Penso che questa circostanza abbia contribuito in modo determinante a ritardare un confronto come quello qui tentato.

Certo, com’è intuibile e come in parte già evidenziato, tra Houellebecq e Baudrillard esistono anche forti e indiscutibili distanze. Tuttavia, la pressoché assoluta assenza di riflessione sui legami, almeno ai miei occhi altrettanto evidenti, che uniscono le due opere, rende sensata (spero) l’operazione qui condotta, che consiste nel mostrare rimandi e somiglianze ‘dal di dentro’, attraverso un lavoro di montaggio di parti o motivi pertinenti. La tesi sostenuta nell’articolo, quindi, è una e circolare: tra le opere di Baudrillard e Houellebecq vi sono analogie e continuità tali che risulta possibile costruire un articolo come questo, fatto virtualmente solo di analogie e continuità. Mettere in luce l’esistenza di questi legami è l’unico fatto qui pertinente – un fatto in sé banale eppure, se non mi sbaglio, nuovo e, credo, importante[13].

In questa prospettiva, il caso del significato politico dell’opera di Baudrillard è paradigmatico: posizioni e provocazioni espresse in numerosi passaggi richiamano parti o intrecci di opere di Houellebecq, legittimando il pensiero dell’esistenza di una qualche «somiglianza di famiglia», meritevole di essere indagata in modo più approfondito e sistematico. Il punto cruciale, per quanto riguarda il Baudrillard ‘politico’ è stato posto da Rex Butler: «Con l’andar del tempo, mi ritrovo sempre più spesso a chiedermi se non fosse proprio Baudrillard quel grande filosofo conservatore che stavo evocando. Baudrillard come grande conservatore? L’idea stessa è eretica»[14]. Butler prosegue passando in rapida rassegna tutti i punti in cui l’attacco al ‘sistema’, per restare nel frasario gauchista, assume la forma di critica conservatrice, quando non reazionaria[15]:

Lungo tutta la sua opera, Baudrillard assume atteggiamenti identificati, semmai, più con la Destra che con la Sinistra. È critico del multiculturalismo. È critico dei diritti umani. È critico della sovra-socializzazione. È critico del consumismo. È critico dell’arte contemporanea e dei suoi musei. È critico di una figura eminente della Sinistra come Foucault. In un libro come La sinistra divina, è critico della Sinistra stessa[16].

Di più: dopo aver ricordato il modo in cui Baudrillard caratterizza l’Islam («superiorità atletica», «rinuncia della volontà», «docilità non ironica»), Butler afferma: «È davvero non eccessivo dire che questi termini sono parte di un certo immaginario culturale stereotipato, forse persino razzista». Vero, tutti questi riferimenti a contesti e fenomeni reali vanno inseriti in un pensiero che è parecchio (ironico, paradossale, metalettico[17], patafisico etc.) fuorché ‘realista’ e devono quindi essere letti almeno al secondo livello (per cui, per esempio, l’Islam da bar è giocato contro l’Islam da caffè del multiculturalismo ufficiale). Pur scontato tutto questo, quella che viene di volta in volta evocata è un’alterità non pre-addomesticata, spesso minacciosa o orrida, mai presentata come una propria opzione politica ma comunque evocata quale forza capace di resistere a ogni tentativo di assorbimento o conciliazione.

Queste energie di irriconciliazione sfuggono all’imporsi della simulazione quale forza storica centrale di una specifica fase della modernità, in cui la realtà appare squalificata a ripetizione di una partita già giocata su un altro tavolo, in cui anche l’imprevisto era stato scontato. La politica ne è uno dei campi di applicazione più decifrabili: test, sondaggi e calcoli statistici sono meccanismi previsionali che anticipano azioni ed eventi veri e propri, rendendoli sempre meno sorprendenti – e anzi, al limite, del tutto superflui, in quanto previsti e pre-interpretati anche nel loro decorso meno probabile. La Guerra Fredda è combattuta a colpi di non-eventi di cui si calcolano le non-reazioni, le elezioni verificano una delle simulazioni che le aveva precedute e permettono finalmente alle conseguenze in essa pronosticate di avere luogo. La realtà arriva dopo e ha l’effetto di lasciar, finalmente, fluire il gioco dei modelli previsionali. Ma il vero paradigma della simulazione è il DNA, in quanto matrice oggettiva che pre-determina aspetti essenziali della vita individuale. Se descrivere il consumo come manipolazione di segni aveva ancora un valore almeno in parte metaforico, se l’evento politico ha comunque una sua materialità buona per reporter e turisti del reale vari, qui si esce di metafora e si tocca la fattualità del codice: l’informazione racchiusa nel codice genetico fa davvero la realtà – la costruisce e ne pre-determina lo sviluppo, salvo incidenti o imprevisti a loro volta fronteggiati da ulteriori codici.

Disneyland, in quanto paradigma del mondo immaginario, ha in realtà la funzione di confermare la realtà del mondo circostante: «Disneyland è posto come immaginario al fine di far credere che il resto è reale, mentre Los Angeles e l’America che la circonda già non sono più reali, ma appartengono all’ordine dell’iperreale e della simulazione»[18].

Il territorio e la sua retorica fungono in Houellebecq da principio di realtà immaginario, come immortalato nella grande festa di Capodanno raccontata in La carta e il territorio[19]. In una lussuosa villa vicino a Parigi il jet-set, vero o auto-nominato, sciama tra stand-tempietti dell’autenticità in cui è esposto il meglio della tipicità francese – cibo, bevande, costumi, tutto quello che dovrebbe costituire la verità del territorio rispetto all’astrazione della carta. La crème si mescola alla salsiccia in una Disneyland del genuino – Eataly! – che finisce, ça va sans dire, nel vomito.

In mancanza di un ‘fuori’ credibile, la reazione a questa accresciuta capacità di previsione e controllo si può manifestare soltanto come contro-finalità innescate dagli stessi meccanismi previsionali, che pur pre-risolvendo i loro task generano, al contempo, nuove patologie e fallimenti prima sconosciuti. La sollecitudine di marketing e welfare suscita una nuova violenza, senza fine e senza oggetto. La tensione verso l’abolizione dello sforzo e l’automatismo è contraddetta da stress e fatica endemici (‘gli eroi del consumo sono affaticati’[20]). Diagnosi genetica e chirurgia estetica sono contemporanee al crescere della massa di obesi e anoressici. Diritti positivi e fatti negativi non si escludono, ma crescono insieme. La forma del pensiero di Baudrillard resta immutata: le varie istanze di previsione e controllo sono limitate non dalle ‘critiche’, che tendono a contestare la parzialità del processo e spingono quindi verso una sua intensificazione, ma dai loro stessi meccanismi costitutivi. Baudrillard come avvocato di un diavolo che è nelle cose.

La vita che viene raccontata da Houellebecq è, per lo più, una vita banale e insostenibile, in parte insostenibile perché banale. La vita quotidiana della maggior parte dei personaggi appare liscia e prevedibile. Eppure, non passa settimana senza che una qualche istanza impersonale chieda al pacifico cittadino un modulo, una bolletta da saldare, una dichiarazione, una firma, un qualcosa in sé minimo che però, se rapportato al Niente che sarebbe lecito aspettarsi da una Società Evoluta, diventa enorme. Il protagonista di Sottomissione ne è assillato e la descrizione è talmente convincente da far pensare che un Partito capace di eliminare del tutto le Scartoffie vincerebbe a mani basse ogni elezione in un qualunque Paese sviluppato, senza bisogno di alcuna alleanza.

La vita è dura perché è imperfettamente burocratica, in questo senso la gestione della morte potrebbe avere qualcosa da insegnare:

«la morte deve poter essere assicurata come servizio sociale, integrata come la salute e la malattia sotto il segno del Piano e della Previdenza sociale. È la storia di quei motel-suicide negli USA dove, contro una somma confortevole, ci si può procurare la morte nelle condizioni più gradevoli (come qualsiasi bene di consumo, servizio perfetto, persino le entraîneuse che vi fanno riprendere il gusto della vita, poi si immette gentilmente, con ogni scrupolo professionale, il gas nella vostra camera, senza tormenti né colpo ferire). […] ‘Morite, noi faremo il resto’ non è già più che un vecchio slogan pubblicitario dei funeral homes. Al giorno d’oggi, morire fa già parte del resto, e i thanatos centre s’incaricheranno della morte come gli eros centre s’incaricano del sesso[21].

Jed, il principale ‘protagonista’ di La carta e il territorio, va a Zurigo sulle tracce dell’anziano padre, che si era recato in quella città dopo aver comunicato l’intenzione di sottoporsi a eutanasia. Jed individua la clinica (Dignitas), annota la via e vi si dirige in taxi, un po’ imbarazzato dall’idea che il taxista veda in lui un aspirante suicida. In realtà Jed scopre che gli sguardi stonatamente ammiccanti del taxista erano dovuti al fatto che accanto a Dignitas si trova il Babylon FKK Relax-Oase, un bordello di lusso, molto kitsch. Dignitas è invece in un edificio sobrio e funzionale – «molto Le Corbusier nella sua struttura trave-colonna che liberava la facciata e nella sua assenza di fioritura decorativa, un immobile identico insomma alle migliaia di immobili di cemento bianco che componevano le periferie semi-residenziali dovunque sulla superficie del globo»[22]. Arriva alla reception e chiede di consultare il dossier del padre, architetto che dopo aver cercato un’alternativa al funzionalismo modernista si era adattato alla costruzione di residence per vacanze. La richiesta crea un po’ di scompiglio, alla fine un’impiegata consegna uno scarno documento, scritto in tedesco, assicura che si è svolto tutto secondo le procedure e che il padre aveva scelto l’incinerazione. Il fastidio e la freddezza dimostrate davanti alle richieste di avere un qualche segno degli ultimi momenti di vita del padre hanno molto innervosito il nostro Jed, in genere tipo dimesso e accomodante. Quando la donna si alza, pensando che il colloquio sia finito, viene assalita da pugni e calci che la lasciano moribonda a terra. Tutto si svolge in silenzio, nella più grande sorpresa di Jed, che non aveva pianificato alcunché ed è stato, come si dice, trascinato dagli eventi. Jed torna in hotel. Mangia e beve di gusto. Si aspetta di essere arrestato l’indomani a un qualche controllo e invece non accadrà nulla, neanche nei giorni successivi. La favola insegna che quando l’Eccezione diventa troppo irrazionale, la Norma, a volte, lascia perdere.

L’esistenza di un’opzione ‘viaggio dall’altra parte della Terra’ al presentarsi di un lutto è un comportamento più in linea con il carattere assurdamente confortevole di una vita conciliata con le possibilità dei tempi. Conoscenti e agenzie di viaggio concorrono a incanalare il destinatario della Sventura, vera o presunta, verso una qualche spiaggia. Jules Verne non aveva osato immaginare quello che è, per il personaggio principale di Piattaforma, del tutto naturale. Siamo al culmine di un lunghissimo processo di ominazione che è giunto a liquidare dolori e pensieri vari grazie alle vacanze tutto compreso.

Ma quello che meglio corrisponde all’idea di una morte quale evento desimbolizzato da includere nella programmazione delle vite individuali è un atteggiamento insieme più sensato e radicale, secondo cui l’annullamento della morte va perseguito attraverso il prolungamento sine die della vita. Ora, perché l’immortalità possa essere una benedizione e non una condanna (perché quasi tutti i personaggi di Houellebecq, fondamentalmente, si annoiano a morte), bisogna pensare a un’umanità di tipo nuovo. Daniel25, il lontanissimo discendente di Daniel1, il comico con cui avevamo cominciato, ha vaghe conoscenze, fondate su pochi documenti lacunosi, di una lontanissima epoca in cui gli umani erano usi a unirsi carnalmente. Le particelle elementari è un lungo esodo, pieno di algoritmi, da una vita invivibile. Più in generale, il lettore di Houellebecq è posto di fronte all’evidenza che la vita, per com’è, tolti i surgelati extra-lusso e qualche bottiglia di bianco, non vale granché la pena. Lo choc petrolifero ha qui assunto forma psichica, la benzina degli umani è finita sul serio, l’unica soluzione è accedere a una superiore energia cosmica (se c’è, e se la si trova).

Nel frattempo, si tira avanti come si può. Nella vita com’era molto prima di Daniel25, l’arte è stata il serraglio di tutti coloro che, per dirla con Houellebecq, ne hanno ‘un po’ le palle piene’[23]. L’arte avrebbe quindi una parte specifica, quella maledetta. In effetti, anche per Baudrillard nella modernità l’arte si è affermata come dominio dell’anti-utilitario e si è via via imposta come alternativa radicale alla realtà e ai suoi principi. Il problema, per entrambi, nasce quando l’arte si dimostra avanguardia di un nuovo modo di creare utile e decorare la realtà, cioè quando l’arte si sposta dal sottosuolo al salotto.

Jed, l’assalitore della segretaria mortifera di Zurigo, costituisce un caso esemplare. Da un punto psicologico, si tratta del classico personaggio à la Houellebecq, con una vita segnata da due preoccupazioni fondamentali: le cene natalizie con il padre e uno scaldabagno che fa i capricci. Da un punto di vista professionale, invece, Jed è un artista che riesce, senza averlo davvero voluto e senza risultarne veramente toccato, a spaccare: grazie a un paio di mostre ben promosse, con vernissage cui partecipano due tre straricchi, il nostro diventa a sua volta straricco. La prima mostra, in particolare, consiste in foto di mappe di territori francesi ed è promossa direttamente dalla Michelin, la nota azienda produttrice di carte e guide turistiche. Il rapporto tra carta e territorio ha un significato, all’interno della biografia artistica dell’autore (lo ha anche, e importante, nell’opera di Baudrillard: è la differenza che la simulazione annulla[24]), ma tale significato non è che un pallido alibi contenutistico rispetto all’insensatezza del gioco della promozione e dell’investimento. Quello che risalta è l’impermeabilità tra il mondo dei valori estetici e il mondo dei valori monetari: nella misura in cui un rapporto si crea, l’artista diventa un magnate e rende irrealistica la parte di artista maledetto; nella misura in cui il rapporto non si crea, non c’è artista degno, oggi, di questo nome. Significativamente, l’opera incompiuta di Jed è un quadro dal titolo: ‘Damien Hirst e Jeff Koons si spartiscono il mercato dell’arte’.

In sé non si tratta di una posizione originale, se consideriamo che già nel 1972 Baudrillard aveva titolato un capitolo di un suo libro: L’aumento di prezzo dell’opera d’arte. Scambio/segno e valore di lusso[25], dove si sosteneva che le aste di quadri, fondate sullo spreco esibito e sulla distruzione manifesta di ricchezze, mostrano allo stato puro una logica competitiva e distintiva presente, in dose minore, anche nell’acquisto delle presunte ‘cose che servono‘ (vedi la sintomatica «utilitaria»). Comprare un Picasso per il corrispettivo del PIL del Kenia è parente nell’assurdo del comprare una Peugeot bianca di moda per il corrispettivo di decine e decine di stipendi mensili di chi la compra. La seconda mostra di Jed si compone proprio di quadri, venduti a prezzi folli – si diceva che questo non è originale, in effetti, anzi, è quasi logico. Houellebecq segue l’artista nella transizione da aspirante artista a star, mostrando dal di dentro l’assenza di rapporto tra ‘ricerca personale’ e riscontri oggettivi (leggi soldi), ma soprattutto considerando la cosa non dal punto di vista classico del genio incompreso, ma da quella del probabilmente mediocre assurto in gloria. Comunque, queste modalità di produzione e distribuzione dei prodotti artistici non hanno nulla a che vedere con la funzione svolta dall’arte, in quanto rifugio dei non allineati. È vero, ma si potrebbe pur sempre dire, algidi: chi se ne importa?

A Houellebecq, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, importa. Le opere di Houellebecq possono essere lette come una forma d’arte evolutiva, forse mutante, sviluppatasi in un contesto che riserva ai prodotti artistici una circolazione sempre più dominata da vincoli mediatici ed economici. Ovviamente, Houellebecq e i suoi libri sono stati e sono anche fenomeni mediatici, oltre che economici. Quello che si sostiene è che il surplus specifico di queste opere, quello che le rende qualcosa di più e diverso dall’essere un bene notiziabile e prezzabile, consiste nel configurarsi anche come reazioni a un mondo in cui gli spazi del non notiziabile e del non prezzabile si sono ridotti a riserve insignificanti o illusorie. Il sostanziale esaurimento dell’autonomia dell’arte, se non dell’arte tout court, non è soltanto qualcosa che nelle opere di Houellebecq viene mostrato, è semmai un elemento con cui l’opera di Houellebecq si confronta sin dall’inizio.

La sparizione dell’arte è stata per Baudrillard un fenomeno storico, che ha avuto in Duchamp e Warhol i principali celebranti. Successivamente essa è diventata messa in scena ripetuta, per l’appunto «complotto»[26] fondato sulla complicità «occulta e alquanto turpe» tra artista (che gioca al secondo, terzo, quarto, x-livello) e masse «stupefatte e incredule». La maggior parte dell’arte contemporanea, per Baudrillard, fa proprio questo: è mediocrità che si spaccia per arte passando dal primo al secondo livello, «ma è nulla e insignificante sia al primo sia al secondo livello» e consiste in «una spartizione in via amichevole, necessariamente conviviale, della nullità».

Dice Houellebecq a proposito della letteratura di H.P. Lovecraft: «l’impatto sulla coscienza del lettore è di una brutalità selvaggia e spaventosa, e si attutisce solo con infinita lentezza»[27]. Eccoci lontanissimi da complotti e convivi. Assumo questa frase come una dichiarazione di poetica: probabilmente per Houellebecq è questo ciò per cui ha senso scrivere. La dimensione performativa dell’opera, cioè l’impatto sulla coscienza del lettore, è un aspetto fondamentale della scrittura di Houellebecq. Stile, analisi dei personaggi, intreccio, questi e altri elementi risultano secondari e subordinati rispetto alla capacità non tanto di «coinvolgere» il lettore, ma di farne il luogo in cui quanto scritto si trasforma in qualcosa di evidentemente, dolorosamente reale. Sempre a proposito di Lovecraft, Houellebecq parla di «letteratura rituale». Credo che una formula del genere sia pertinente anche nel caso di Houellebecq, a indicare l’esistenza di un patto con il lettore stretto sulle ceneri tanto della letteratura buona, quanto della buona letteratura. Con questo non si vuol dire che il patto consacri la cattiva letteratura, semmai che esso sigilla un desiderio pre- ed extra-letterario, lato produttore e lato utente, di letteratura cattiva.

Scrivere il male in presenza di un progetto di annientamento del male, questa è la posta fondamentale dell’opera di Baudrillard, in modo particolare nei testi che seguono Lo scambio simbolico e la morte. Anche questa sfida ha la sua chiave decisiva non a livello strettamente testuale, ma lungo l’asse testo-lettore. La domanda fondamentale è stata posta da Marc Guillaume: «Perché frequentiamo il mondo mentale che Baudrillard ha creato a partire dal mondo che condividiamo? Quale inquietudine gioiosa riusciamo a ricavare da questa frequentazione? O ancora: perché quest’ombra gettata sul mondo ci seduce?»[28]. Quando Baudrillard parla di sfida, duello, dualità, ebbene tutto questo non è semplicemente ‘detto’, ma prende corpo nel rapporto con il lettore.

Anche se vengono spesso richiamati una serie di concetti e modelli mutuati da modelli scientifici o filosofici, i testi di Baudrillard soffrono molto, se sottoposti ai protocolli della ricerca scientifica o dell’argomentazione filosofica. Certo, è possibile filtrare l’enorme mole di materiale accumulatosi negli anni spremendone ‘tesi’ che siano ritenute, per un qualche motivo, rilevanti o originali. Si può dire che questa sia una tendenza piuttosto diffusa, nei lettori di Baudrillard. Generalmente, è poi su questa traduzione che si concentra l’operazione confutativa o polemica dei ‘critici’– che, in verità, spesso procedono ad autonome quanto spericolate estrazioni del succo di discorsi da loro stessi costruiti.

Contro questa tendenza, è da escludere che la specificità dell’opera di Baudrillard sia riducibile a un insieme di contenuti di carattere scientifico o filosofico. Al contrario, questi contenuti risultano indissociabili dalla forma in cui sono presentati – una scrittura piena di effetti e giochi di parole, volta fondamentalmente alla destabilizzazione delle griglie analitiche del lettore. Una scrittura performativa, ‘numero nero’ effettuato, è il caso di dire, sotto gli occhi del lettore.

Letteratura rituale, scrittura performativa. Rumore di specchi in frantumi.

Note

[1]           M. Houellebecq, La possibilità di un’isola, Bologna 2007.

[2]           J. Baudrillard, La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, Bologna 2008, p. 3.

[3]           L’epocalità di questo passaggio è rimarcata con la caratteristica incisività da Peter Sloterdijk in: Devi cambiare la tua vita, Milano 2010, da cui prendo in prestito anche l’uso della formula ‘Età del Ferro’.

[4]           Sul rapporto tra teologia e capitalismo in Weber e soprattutto Benjamin, cfr. l’attenta e acuta l’analisi di Mario Pezzella in Insorgenze, Milano 2014.

[5]           J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, Bologna 2003, p. 204.

[6]           M. Houellebecq, Piattaforma. Nel centro del mondo, Bologna 2001.

[7]           M. Houellebecq, Estensione del dominio della lotta, Bologna 2007.

[8]           I riferimenti a Georges Bataille e a Marcel Mauss sono una costante dell’opera di Baudrillard, come ben messo in luce da Serge Latouche in: Baudrillard o la sovversione attraverso l’ironia, Milano 2016, pp. 27-30.

[9]           J. Baudrillard, La sinistra divina, Milano 1986, p. 87.

[10]          J. Baudrillard, La sinistra divina, Milano 1986, p. 88.

[11]          M. Houellebecq, Sottomissione, Bologna 2015.

[12]          Cfr. M. Houellebecq, B.-H. Lévy, Ennemis publics, Paris 2008, p. 220-221.

[13]          Ringrazio Matteo Bortolini, Paolo Costa ed Eleonora de Conciliis per aver sostenuto nel travaglio la scrivente montagna.

[14]          R. Butler, Jean Baudrillard’ Duality, in «International Journal of Baudrillard Studies», vol. 8, n.1, 2008 (cfr. http://www2.ubishops.ca/baudrillardstudies/vol-8_1/v8-1-butler.html, pagina consultata il 31.1.2017).

[15]          Sul rapporto tra Baudrillard e il più augusto tra gli avvocati del ‘sistema’, Niklas Luhmann, mi permetto di rimandare al mio: Baudrillard As A Smooth Iconoclast: The Parasite And The Reader , in «International Journal of Baudrillard Studies», vol. 5, n. 1, 2008 (cfr. http://www2.ubishops.ca/baudrillardstudies/vol5_1/v5-1-article15-capovin.html, pagina consultata il 31.1.2017).

[16]          R. Butler, Jean Baudrillard’ Duality, in «International Journal of Baudrillard Studies», vol. 8, n.1, 2008 (cfr. http://www2.ubishops.ca/baudrillardstudies/vol-8_1/v8-1-butler.html, pagina consultata il 31.1.2017).

[17]          Sull’importanza della metalessi in Baudrillard e sul senso delle auto-attribuzioni elencate, cfr. S. Latouche, Baudrillard…, cit., pp. 44-45.

[18]          J. Baudrillard, La precessione dei simulacri, in Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Bologna 1980, p. 60.

[19]          M. Houellebecq, La carta e il territorio, Bologna 2010, pp. 198-206.

[20]          J. Baudrillard, La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, Bologna 2008, p. 292.

[21]          Cfr. J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Milano 2009, p. 194. Poco prima Baudrillard ricorda: «la Previdenza Sociale è la morte’ – Maggio ’68».

[22]          M. Houellebecq, La carta e il territorio, Bologna 2010, p. 311. Noto che le riflessioni sull’urbano e sull’architettura di Baudrillard, dalla rivista «Utopie» all’‘effetto Beaubourg’, hanno come oggetto principale proprio gli assunti e le conseguenze del modernismo funzionalista.

[23]          M. Houellebecq, H.P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita, Bologna 2001, p. 14.

[24]          L’opera di Baudrillard non permette di individuarvi un vero sviluppo teorico, se si eccettuano alcuni aggiustamenti, il più significativo dei quali è forse nel cruciale La precessione dei simulacri : in questo articolo del 1978 viene considerata rétro proprio l’immagine borgesiana di una mappa in rapporto 1:1 con il territorio.

[25]          J. Baudrillard, Per una critica dell’economia politica del segno, Milano 2010.

[26]          Da questa citazione sino alla fine del capoverso, il riferimento è a: J. Baudrillard, Il complotto dellarte, Milano 2013, p. 3.

[27]          M. Houellebecq, H.P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita, Bologna 2001, p. 34.

[28]          M. Guillaume, Cool thinking, in Cahiers de l’Herne – Baudrillard, Paris 2008, p. 149.

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