È l’argomento di questi giorni e come sempre accade ognuno ha dovuto dire la sua: politici, commentatori, personaggi dello spettacolo. Chi l’ha chiamata uomo, chi travestito, chi transessuale, chi intersessuale, chi donna. Stiamo parlando ovviamente della pugile algerina Imane Khelif, il cui incontro contro l’italiana Angela Carini alle olimpiadi di Parigi è durato appena 40 secondi sul ring sportivo ma non accenna a finire su quello mediatico. La questione ha finito, come spesso succede, per dividere il pubblico in due fazioni che si autoalimentano delle proprie certezze. Da un lato chi si è schierato contro la sua partecipazione, accusando il Comitato Olimpico di essersi fatto trascinare dalla “ideologia gender”, dall’altra chi ne ha difeso a spada tratta il diritto a partecipare tacciando di essere un reazionario chiunque ponesse dei dubbi. Al solito, per chi non volesse partire da verità preconfezionate, su L’Indipendente ci siamo presi il tempo necessario per approfondire una vicenda dai contorni fumosi dove, bene dirlo subito, le fonti non sono sufficienti a sapere tutto e – anche nel caso lo fossero state – rimane molto difficile arrivare a una conclusione.
Cominciamo dai fatti: giovedì 1° agosto Imane Khelif e Angela Carini salgono sul ring delle Olimpiadi di Parigi 2024 per disputare un incontro di pugilato nella categoria dei pesi welter. L’incontro dura appena 46 secondi: tempo sufficiente affinché la 25enne italiana subisca una serie di colpi, compreso un diretto al viso. «Mi ritiro» dice al coach, avvicinandosi al proprio angolo, «mi ha fatto malissimo». «Non è giusto» ripete più volte, ad alta voce, dopo che l’arbitro decreta la vittoria di Khelif. Evita l’avversaria, che le si è avvicinata per stringerle la mano e si getta in ginocchio in lacrime al centro del ring. Esprimersi sulle decisioni di Carini sarebbe fuori luogo. Solo chi è salito sul ring e si è trovato a confrontarsi con un avversario può immaginare le emozioni di un atleta in quel momento.
Chi è Imane Khelif
Della storia di Imane Khelif non sappiamo quasi nulla, particolare d’altra parte comune a moltissimi atleti dilettanti che partecipano alle olimpiadi vedendo dal Sud Globale. Secondo l’anagrafe algerina è nata il 2 maggio 1999 a Tiaret, cittadina della parte occidentale del Paese, ed è una donna. Dal punto di vista sportivo invece sappiamo che a 25 anni non ha ancora vinto nessun titolo di rilievo: alle olimpiadi di Tokyo 2021 è stata sconfitta ai quarti di finale, mentre ai mondiali di Istambul 2022 ha perso in finale.
Balza alle cronache l’anno seguente, quando l’International Boxing Association (IBA), ossia l’ente internazionale che organizza i mondiali di pugilato, la esclude per “non avere superato i test di idoneità di genere”. Non è l’unica atleta che viene esclusa per questa ragione, e tra loro c’è anche un’altra pugile presente alle Olimpiadi di Parigi, la taiwanese Lin Yu-ting. Il presidente dell’IBA, il russo Umar Kremlev, precisa all’agenzia di stampa TASS che Kelif e le altre atlete sono state escluse «sulla base di test del DNA che hanno rilevato la presenza di cromosomi XY», ovvero i cromosomi maschili. Interpellato anche dalla testata inglese The Guardian, aggiunge che l’esclusione è avvenuta «in seguito a un esame approfondito e con il fine di salvaguardare l’equità e l’integrità della competizione». Tuttavia, al fine di tutelare la privacy delle atlete, l’IBA non ha reso pubblici gli esami né fornito dettagli specifici.
E quindi cosa vuol dire?
L’International Boxing Association non afferma che Khelif e le altre atlete sospese siano uomini, né tantomeno trans (ossia uomini di nascita in transizione per diventare donne) come scritto erroneamente da tanti. Non dice nemmeno, cosa scritta da quasi tutti i media italiani, che i test avrebbero rilevato un tasso di testosterone superiore al limite, non risulta infatti che test simili le siano stati fatti. L’IBA afferma che il test del DNA hanno rilevato la presenza di cromosomi XY. Stando quindi a quanto comunicato dall’IBA, Imane Khelif sarebbe una persona intersessuale, ossia con caratteristiche sia femminili che maschili.
Non si tratta di una cosa così rara come si potrebbe pensare. La natura è decisamente più varia e “disordinata” di come la norma vorrebbe che fosse. Secondo le stime, i soggetti nati con caratteristiche intersessuali costituiscono fino all’1,7% della popolazione mondiale. Si tratta di persone che presentano, a livello biologico, differenze o variazioni nello sviluppo del sesso, che possono riguardare tanto cromosomi e ormoni sessuali quanto i genitali esterni o gli organi riproduttivi interni.
In Algeria, così come in molti altri Paesi al mondo, Italia inclusa, la legge prevede però l’esistenza di due soli generi, e alla nascita uno dei due deve essere assegnato. Khelif, evidentemente dotata di genitali esterni femminili, viene classificata come donna. In una società che riconosce come legittima solamente una distinzione netta tra i due sessi, negando l’esistenza di sfumature (che pur a livello biologico esistono), Khelif è dunque, a tutti gli effetti, una persona di genere femminile. È successo così in Algeria e anche in Italia sarebbe stata considerata tale.
Perché allora Khelif è alle Olimpiadi?
L’International Boxing Association non si occupa dell’organizzazione del pugilato a livello olimpico. Qui le decisioni spettano al Comitato Olimpico Internazionale (CIO). E le regole olimpiche prevedono che non siano svolti esami del DNA, ma che ci si basi sui documenti. Se nel passaporto una persona è indentificata come donna, allora compete tra le donne. Quindi non è che le regole siano state modificate per permettere alle persone intersessuali di partecipare, semplicemente sono sempre state così in quanto il CIO, così come la gran parte dei Paesi che ne fanno parte, non considera eccezioni al binarismo di genere.
Il passato delle olimpiadi, d’altra parte, è denso di polemiche su atleti che hanno vinto medaglie e talvolta frantumato record nelle competizioni femminili su cui pende il sospetto di essere trans o intersessuali. Uno dei casi più noti è quello della mezzofondista cecoslovacca Jarmila Kratochvílová, che nel 1983, negli 800 metri piani, piazzò un record del mondo talmente impensabile da non essere ancora stato superato a 41 anni di distanza. Sulla Kratochvílová non sapremo verosimilmente mai se si tratta di una atleta intersex, ma i suoi tratti mascolini e la massa muscolare hanno sempre adombrato su di lei il “sospetto”.
Quindi è tutto a posto? Neanche per sogno
Quanto detto fino a qui, più che porre dei punti fermi nella questione, apre domande e interrogativi. Primo fra tutti, quello riguardo i criteri di ammissione degli atleti ai tornei. E se una generale confusione regna per gli sport in generale, il dibattito è paradossalmente ancora meno acceso sulle discipline di contatto, dove, oltre che una disparità fisica che può determinare o meno un vantaggio nella competizione, vi è anche un rischio concreto di compromettere seriamente l’incolumità fisica delle atlete. Secondo alcuni studi scientifici, citati dal Guardian, la potenza media dei pugni di chi ha attraversato la pubertà maschile può infatti essere superiore fino al 162% rispetto a quella delle donne. Anche se considerazioni di questo tipo valgono più che altro nel caso di atlete transgender (e non è questo il caso), rimane l’interrogativo sul ruolo degli ormoni nel determinare la prestazione fisica di una persona. Nel caso di Caster Semenya, per esempio, gli alti livelli di testosterone nel sangue rilevati dagli esami condotti dal World Athletics hanno fatto sì che l’atleta, due volte medaglia d’oro olimpica nell’atletica leggera, fosse costretta a rinunciare a competere nei 400 metri.
Bilanciare equità e diritti può essere estremamente complesso in questi contesti, e forse non è nemmeno sempre possibile. È accettabile, a fronte di questi dati, che a determinare la possibilità o meno di partecipare a un torneo di sport da combattimento sia unicamente l’identità segnata sul passaporto?
La mancanza di regolamenti chiari, che tengano realmente da conto la complessità della biologia umana, rischia di comportare una doppia discriminazione: da un lato, nei confronti di chi è inferiore in termini di forza fisica; dall’altro, di chi avrebbe le carte in regola per partecipare alle competizioni, ma ne viene escluso. Allo stesso modo, il caso di Khelif ci riporta di fronte al fatto che difficilmente la natura può essere classificabile in categorie nette. Nel suo caso, infatti, non si parla di “identità di genere”, “ideologia gender” o “follia woke”, ma semplicemente di biologia. La sua “anomalia” di genere andrebbe normata, nella società come nello sport, ma per farlo è necessario riconoscerne l’esistenza. Mentre i politici e i commentatori che hanno cavalcato immediatamente l’onda della polemica su questo caso, sono mediamente gli stessi che rifiutano di accettare che in natura il genere non sia sempre qualcosa di perfettamente binario.
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