lunedì 1 settembre 2014

MEDIA PUBBLICITA' COMUNICAZIONI DI MASSA. IL FESTIVAL DEI SENSI. R. CESERANI, La seducente illusione di una vita tornata autentica, IL MANIFESTO, 23 agosto 2014

Fra trulli, anti­che mas­se­rie e dimore sto­ri­che della Valle d’Itria, da ieri fino al 24 ago­sto un Festi­val sarà dedi­cato al «sesto senso», muo­ven­dosi fra Cister­nino, Loco­ro­tondo, Mar­tina Franca e Ceglie Mes­sa­pica.




Vi si par­laerà di «cose sane e sen­sate, belle e sedu­centi per ripren­dere i sensi», fra lezioni, con­fe­renze iti­ne­ranti, gite a lenta velo­cità, espo­si­zioni tat­tili, espo­si­zioni di bio­di­ver­sità e quant’altro. Sarebbe inge­nuo invo­care ai nostri giorni l’estetica, l’esperienza, la pie­nezza dei sensi come baluardi con­tro la bar­ba­rie del mer­cato; anche se appare ugual­mente impro­po­ni­bile il rifiuto ideo­lo­gico di emo­zioni e sen­sa­zioni «inau­ten­ti­che» poi­ché mer­ci­fi­cate. Le rap­pre­sen­ta­zioni della con­su­mer cul­ture, in let­te­ra­tura e nelle altre arti, di con­se­guenza mutano: alla cri­tica e alla con­danna uni­la­te­rale fanno séguito atteg­gia­menti più ambi­gui e per­plessi, epi­sodi che ten­dono alla para­bola o all’allegoria. Vale la pena con­fron­tare due esempi, uno ante­riore l’altro poste­riore alla svolta post­mo­derna.
In una scena della Vita agra, film tratto nel 1964 dall’omonimo romanzo di Luciano Bian­ciardi, ven­gono sve­lati i segreti della pub­bli­cità, quella che allora, secondo un cli­ché un po’ para­noico, veniva bol­lata come «per­sua­sione occulta». A un gruppo di aspi­ranti pub­bli­ci­tari ven­gono fatti assag­giare prima dei «biscotti grassi», poi dei «biscotti magri»; nes­suno ovvia­mente si accorge che si tratta dello stesso biscotto. «Que­sto per­ché — spiega l’esperto — voi avete sen­tito la pre­senza e l’assenza di burro con le orec­chie, non con il palato (…). Que­sto è un prin­ci­pio fon­da­men­tale che dovrete appli­care nel vostro lavoro futuro: i sapori il pub­blico li deve sen­tire con le orec­chie, con la vista, col tatto. Il palato non serve».

LE ILLU­SIONI DELLA PUBBLICITÀ

Lo schema è chiaro: in un mondo reso uni­forme e «insa­pore» dall’industria, la pub­bli­cità ricrea illu­so­ria­mente le sen­sa­zioni e l’esperienza di una volta. Pro­ba­bil­mente è una soprav­va­lu­ta­zione, forse di ori­gine uma­ni­stica, del potere della parola, della per­sua­sione e delle rap­pre­sen­ta­zioni; oggi sem­mai ci sarebbe più da temere la scienza e la tec­nica, si pensi agli aromi e ai pro­fumi di sin­tesi, alle ricer­che sulle basi chi­mi­che e neu­ro­lo­gi­che della sen­sa­zione. Ma quel che appare più ana­cro­ni­stico è la rap­pre­sen­ta­zione del con­su­mi­smo come una disci­plina repres­siva, evi­dente nel tono auto­ri­ta­rio e dida­sca­lico del pub­bli­ci­ta­rio (che ha i tratti del tec­no­crate più che quelli odierni del «crea­tivo»). La sua lezione è rivolta impli­ci­ta­mente allo spet­ta­tore — in una sorta di stra­nia­mento bre­ch­tiano —, il quale dovrebbe impa­rare di con­se­guenza a non cadere più nel tra­nello machia­vel­lico ordito ai suoi danni.
Tro­viamo un’argomentazione appa­ren­te­mente ana­loga in Under­world (1997) di DeLillo, dove a un certo punto com­pare un pub­bli­ci­ta­rio new­yor­kese. Chuc­kie Wai­n­w­right nel 1961, pro­prio all’inizio della «rivo­lu­zione crea­tiva», riflette su un nuovo modo di pub­bli­ciz­zare il succo d’arancia, non più mediante pro­messe salu­ti­ste e ter­mini pseu­do­scien­ti­fici, bensì con un diretto appello sen­suale: sapeva come pub­bli­ciz­zare il succo d’arancia. Era ora di chiu­dere con la Flo­rida e le stu­pide vita­mine. Biso­gnava pun­tare sull’appetibilità del pro­dotto, sulla botta visiva, per­ché que­sta è una bevanda bel­lis­sima e affa­sci­nante, e i globi ocu­lari delle donne rag­giun­gono alti livelli di ecci­ta­zione quando vedono vivaci lat­tine aran­cione nel free­zer, luc­ci­canti di brina ghiac­ciata. Biso­gna mostrare la polpa. Far vedere il succo che schizza nel bic­chiere. Mostrare la schiuma sul lab­bro supe­riore un po’, spor­gente di una casa­linga, un vago accenno a un pom­pino prima di cola­zione. Natu­ral­mente nel con­cen­trato non c’è nes­suna polpa. E c’è solo una micro­trac­cia di polpa nel succo in lat­tina. Nel lo si può sug­ge­rire, si pos­sono fare allu­sioni, si può pro­met­tere al con­su­ma­tore l’esperienza di fram­menti citrini dl polpa vera — un bic­chiere di succo, un calice tra­boc­cante di una sostanza piena di par­ti­celle, una spe­cie di mira­co­loso smog aran­cione. Lo metti in evi­denza. Lo foto­grafi amo­re­vol­mente e micro­sco­pi­ca­mente. Se la lat­tina o il car­tone pos­sono essere un orga­smo visivo, può esserlo anche il pro­dotto all’interno.
Attra­verso la rap­pre­sen­ta­zione visiva, l’iperrealismo foto­gra­fico, dovreb­bero pas­sare ogni sorta di richiami fisici, sen­suali e ses­suali. La pub­bli­cità ame­ri­cana della prima metà del Nove­cento era stata sin­go­lar­mente astratta, più che le cose aveva ven­duto la loro fun­zione, il loro uso, i bene­fici che pote­vano assi­cu­rare: non la lam­pa­dina ma l’illuminazione, non l’automobile ma la libertà di movi­mento, non il succo d’arancia ma la cola­zione salu­tare. In un totale rove­scia­mento adesso pro­mette la cosa in sé, nella sua qua­lità sen­si­bile, fino a rasen­tare una sorta di por­no­gra­fia delle merci. Wai­n­w­right è però ben lon­tano dalle cer­tezze del per­sua­sore nostrano. Si mera­vi­glia ad esem­pio delle mode che emer­gono ino­pi­na­ta­mente nella società, di feno­meni di massa cao­tici e imper­scru­ta­bili. Con­su­ma­tore egli stesso e un po’ cial­trone, con il suo entu­sia­smo cerca prima di tutto di con­vin­cere se stesso, così come imbo­ni­sce, a suon di ste­reo­tipi ses­si­sti, bar­zel­lette sconce, pseudo-scienza pavlo­viana e pro­messe esa­ge­rate, un cliente di Omaha.

UN MON­DANO SOPRANNATURALE

Eppure, il finale di Under­world a suo modo sem­bra dar­gli ragione, allor­ché negli anni Novanta un car­tel­lone del Minute Maid pro­ba­bil­mente ispi­rato dalle sue intui­zioni diviene l’oggetto di un sin­go­lare culto. Una folla cre­scente vi si raduna davanti tutte le sere atti­rata dalla voce che sul mani­fe­sto appaia in certi momenti il volto di Esme­ralda, una bam­bina di strada da poco tru­ci­data nel Bronx. Anche la scet­tica Suor Edgar, tra­volta suo mal­grado dall’entusiasmo della folla, fini­sce per gri­dare al mira­colo, prima che l’evento spro­fondi di nuovo fra le cen­ti­naia di leg­gende metro­po­li­tane. Ai suoi occhi il car­tel­lone diviene un esem­pio moderno di arte sacra: «Che dispen­dio di fatica e tec­nica, di raf­fi­na­tezza — l’equivalente, pensa Edgar, dell’architettura delle chiese medie­vali».
Sono dun­que i pub­bli­ci­tari a pro­durre il nuovo sacro? Attra­verso la rima nar­ra­tiva fra due epi­sodi col­lo­cati ad anni e cen­ti­naia di pagine di distanza, il romanzo mina la con­cre­tezza sen­suale della pub­bli­cità — non c’è polpa nel succo — acco­stan­dola alla Pre­senza assente per eccel­lenza, quella del sopran­na­tu­rale. Dal sen­si­bile si passa al sovra­sen­si­bile: come non ricor­dare la defi­ni­zione di Marx del «fetic­cio» della merce, quella «cosa» tutt’altro che «tri­viale», «piena di sot­ti­gliezza meta­fi­sica e capricci teo­lo­gici», «sen­si­bil­mente sovra­sen­si­bile»? Ecco, anche quando aspira alla con­cre­tezza dei sensi, la merce resta una «cosa» enigma–tica, non solo cosa ma segno, rap­pre­sen­ta­zione, evo­ca­zione, fetic­cio di una nuova reli­gione. Ma rispetto alla bat­ta­gliera inge­nuità di qual­che decen­nio fa, l’odierna cre­du­lità post­mo­dema, come pure una seco­la­riz­za­zione che tarda a rea­liz­zarsi, ci inse­gnano che si tratta di una fede dif­fi­cile da estirpare.

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