venerdì 12 agosto 2016

LA MORTE E IL RICORDO OGGI. S. GIVONE, Anna Marchesini, bisogna morire
 per essere vivi, L'ESPRESSO, 8 agosto 2016

Bisognava che morisse, perché ci si ricordasse di lei... A molti sarà venuto in mente un pensiero del genere, in occasione della morte di Anna Marchesini. Non che alla bravissima attrice fossero mancati i riconoscimenti che meritava. Ma la nostra attenzione nei suoi confronti era scemata e le luci della ribalta ormai puntate altrove l’avevano costretta a fare un passo indietro, in seconda o terza fila. Solo nel momento del congedo ci siamo accorti di quanto ci mancasse. Di qui i frettolosi e anche un po’ sospetti tentativi di risarcimento. Quella stessa televisione che l’aveva messa da parte si è premurata di dirci quanto fosse unica e insostituibile. Per non parlare dei social network, dove si è assistito alla nobile gara fra chi meglio aveva saputo apprezzarla e chi ora la rimpiange di più.



Ma davvero bisogna morire per essere ricordati? Vien da pensarlo. E non solo in morte di Anna, ma anche di altri artisti che come lei hanno rappresentato è messo a nudo la nostra cattiva coscienza. Peccato però che questi omaggi postumi abbiano tutta l’aria d’essere dei riti consolatori. Non sono pochi gli attori che hanno saputo mettere in scena l’atroce e miserabile commedia di cui siamo noi i protagonisti. E noi che cosa abbiamo fatto? Li abbiamo applauditi. Ma come chi è ben lontano dal riconoscere se stesso come oggetto della rappresentazione e come bersaglio della satira. Perché è facile ridere degli altri, un po’ meno di se stessi.



Doppiatrice, autrice, poetessa e attrice. Anna Marchesini era un'artista dalle mille sfumature, che ha intrattenuto il pubblico con le sue tante interpretazioni: la Lucia Mondella e la badessa in una parodia dei Promessi Sposi insieme a Solenghi e Lopez, la sessuologa Merope Generosa, e ancora, Giulietta, Gina Lollobrigida, le sorelle Carlucci sempre con il Trio, fino all'esilarante signorina Carlo. In questo video un breve montaggio delle sue apparizioni più famose

Non è un caso che molti di quegli attori, alla fine della loro vita, si siano sentiti abbandonati e traditi e che qualcuno di loro, al culmine dell’amarezza, abbia detto che per lui era arrivato il momento di togliere il disturbo. La chiamano depressione. La tipica depressione dell’attore. E si tratterà pure di questo. Ma la realtà è che loro erano venuti per dirci chi siamo, povere maschere di una commedia che è tutta nostra, e dunque a inquietarci, sì, a disturbarci. Ricevendone in cambio un applauso di maniera è un consenso di circostanza. Meglio, a quel punto, togliere il disturbo. Infatti erano venuti proprio per quello, prima ancora che per farci divertire, e noi li avevamo fraintesi.

Quanto è tragico il comico! E quanta comicità nella tragedia. Beckett, che in queste cose aveva uno sguardo d’aquila, sosteneva che non c’è come la disgrazia che possa apparire comica. Il caso, questa potenza insignificante ma beffarda, è in grado di produrre senza sosta situazioni di una doppiezza maligna. Più crediamo di padroneggiarlo, più ne siamo succubi. Niente ci fa ridere come vedere qualcuno in balìa del caso. E siccome il caso è all’opera ovunque si prepari una catastrofe, ogni catastrofe ha in sé qualcosa di ridicolo.

Proprio questa capacità di cogliere il comico nel tragico per Leopardi esprime bene il carattere degli italiani. Agli occhi dei quali il tragico è talmente intriso di comicità, che alla fine di esso non ne è più nulla. Un antico cinismo maturato nei secoli ha trasformato la vita in uno spettacolo da cui trarre occasioni di riso. Ma se gli italiani sanno vedere il comico nel tragico, però sono ciechi di fronte alla tragicità del comico.

Quando qualcuno gliela fa notare e quasi toccar con mano (per l’appunto, verrebbe da aggiungere, i grandi attori della commedia dell’arte o i non meno grandi attori che ne hanno proseguito la tradizione nella commedia all’italiana e poi nel cabaret teatrale e televisivo) finisce immancabilmente che gli voltano le spalle e lo dimenticano, peggio, lo ignorano. Salvo tributargli quel melenso omaggio postumo che non è fatto per ricordare ma per dimenticare. E cioè per gettare un velo definitivo sulla loro inesauribile volontà di rovesciare il tavolo della vita e mettere tutti quanti di fronte a uno specchio impietoso. Sempre più spesso l’ultimo commiato è accompagnato da un “ciao” bonario e corrivo che in realtà li consegna brutalmente all’insignificanza. Lo stesso ciao che è tracimato dalle cerimonie funebri alle inserzioni mortuarie, ai tweet, ecc. Ciao Zietta, ciao Nonnino, ciao Papino, ciao Pippo, ciao Pippa... La morte viene così ridotta a pretesto del più banale e insulso gigionismo.

“Ogni vita ha un destino tragico e un’esistenza comica”: parola del filosofo George Santayana. Che ogni vita abbia un destino tragico, lo sa chiunque sia stato toccato o quanto meno sfiorato dalla sciagura: che è una presenza inaggirabile, minacciosa, pronta a invadere la nostra vita in ogni momento, come accade sempre di nuovo e immancabilmente. E se sotto i colpi della sferza impugnata da una mano implacabile c’è chi ha preferito trasformare il suo dolore in una danza buffonesca e triviale, costui ha con ciò confermato quanto possa essere tragico il comico e comico il tragico. Eccoci così ricondotti allo strano pensiero da cui siamo partiti e che ci è stato suggerito dalla morte di una grande attrice comica: bisogna forse morire, per trovare uno straccio di verità sul proprio conto? E se le cose stanno così, perché in genere accade proprio il contrario?

Pensiero strano e non soltanto strano, ma anche difficile da accettare: tale apparve al primo che osò formularlo, vale a dire Dante Alighieri. “Bisogna che la mia donna muoia”, scrive Dante nella “Vita nova”. Dante ha un sogno angosciosissimo: una voce gli annuncia non soltanto che Beatrice sta per morire, ma anche che questa morte è necessaria. Una cosa orribile, e infatti Dante si sente smarrito, perso, e come chi sta per uscir fuori di testa, salvo poi, tra mille dubbi e sofferenze, dar ragione a quella voce. Sì, Beatrice deve morire, perché soltanto se Dante saprà amarla anche nella morte, Beatrice potrà essere per lui una luce e una promessa di felicità. Solo così quel suo amore (abbastanza sconsiderato, visto che Beatrice non sarebbe mai stata sua) avrebbe potuto diventare amore salvifico e non solo rischiarare il suo cammino, non solo permettergli di uscire dal brutto pasticcio in cui si era cacciato, ma portarlo dove sappiamo.

Aveva qualcosa in comune con la Beatrice dantesca, Anna Marchesini? Sì e no. No per tanti motivi, uno in particolare: Anna diffidava dell’amor platonico, di cui invece Beatrice era l’incarnazione, e prendeva partito senza riserve a favore dell’amor carnale, di cui fece un elogio bellissimo e spiritosissimo. Per lei l’amore era tanto più seducente, quanto più “impuro”. E impuro voleva dire: trasgressivo, libero da qualsiasi legame, estraneo al matrimonio (su questo punto anche Beatrice avrebbe potuto dire la sua). Ma anche sì per altrettanti motivi, forse perfino più convincenti.

Anna era puntigliosa, non meno di Beatrice. Recitava la sua parte di fronte a un pubblico anonimo e vasto, ma intanto ammiccava singolarmente a questo o a quello, come se dicesse: amico mio, sto parlando di te, non di qualcun altro, ma di te, proprio di te. Era difficile sfuggirle e non essere messi alle corde, fino a provare un profondo disagio. Come chi viene colto sul fatto, un fatto di cui può soltanto vergognarsi. Ecco perché il desiderio di guardare altrove era forte. Così come la tentazione di tributarle un applauso liberatorio, purché la sottile tortura finisse. Ma se si aveva il coraggio di seguirla fino in fondo, e fino in fondo stare al gioco, allora si poteva anche essere premiati. Non che ti portasse in paradiso. Intanto però ti aveva aiutato a fare chiarezza su te stesso e sul mondo. Insomma, aveva fatto della sua arte uno strumento di conoscenza, mettendola a disposizione di chi avesse saputo approfittarne.

E questo ditemi voi se è poco.

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