martedì 27 dicembre 2016

COSTUME CANZONI MUSICA POP. LA MORTE DI G. MICHAEL. M. PANARARI, L’insostenibile leggerezza dell’impegno sociale negli anni dell’edonismo, LA STAMPA, 27 dicembre 2016

Ci sono almeno due George Michael (o, forse, anche di più). E il «secondo Michael», quello meno conosciuto - ovvero l’artista «impegnato» - sembrerebbe quasi l’altra faccia della medaglia rispetto al cantante che è esploso, diventando una star, negli Anni 80. Ma a ben guardare, anche il «secondo George» reca, in maniera inequivocabile, i segni di quel decennio che ha reso l’impegno dei musicisti qualcosa di profondamente diverso dal modello dell’artista-intellettuale organico degli Anni 50 e 60 e da quello del cantautore di sinistra (o «del movimento») dei Settanta.  



Un impegno che si è orientato in senso sociale, assai più che politico, e verso la promozione dei diritti civili, finendo per sposare le cause single-issue anziché i «destini di classe». Perché lo schierarsi di chi fa musica, e degli artisti in genere, ha cessato di seguire i precetti di un’ideologia, scaturendo sempre più da un posizionamento simbolico di fronte all’opinione pubblica generale, da un bisogno interiore o da un’urgenza biografica; esattamente come nella mobilitazione pro-diritti dei gay di Michael, arrivata alla fine di un lungo percorso personale: dall’occultamento della propria omosessualità fino a un’orgogliosa presa di coscienza, passando per il coming out del 1998 seguito al suo traumatico arresto negli Usa per «oltraggio al pudore».  

Un’icona della musica (e della cultura) pop che ha reagito alle difficoltà - dalle persecuzioni «di stampo vittoriano» delle autorità al forsennato assedio delle riviste di gossip - rivelando tutto di sé, compresi i panni sporchi. Umano, troppo umano, George, ma altresì capace di inaugurare una narrazione della trasparenza integrale in piena sintonia con quello che sarebbe divenuto uno dei fondamenti del discorso pubblico successivo (e nella quale agivano anche le componenti della cultura del narcisismo e della società dell’apparire legatissime allo spirito del tempo). 

A pesare in maniera decisiva su questa metamorfosi postmoderna della figura dell’artista engagé sono stati infatti, e innanzitutto, gli Anni 80, quelli che la rivoluzione l’hanno davvero portata a termine attraverso i paradigmi della società dello spettacolo e dello show-business. Il pop «usa e getta» degli Wham! fu, insieme, a quello dei Duran Duran e degli Spandau Ballet, uno dei vessilli del decennio del disimpegno; e Michael, anche attraverso l’estetica dei suoi videoclip, ne fu uno dei volti per eccellenza.  

Eppure, proprio in quell’epoca, prese ripetutamente posizione contro Margaret Thatcher e manifestò un orientamento pacifista. Si schierò contro il Sudafrica razzista e partecipò a quell’altra manifestazione del cambiamento del ruolo pubblico del musicista rappresentato dalle superband filantropiche e dagli happening benefici organizzati da Bob Geldof e altri: dal Band Aid per aiutare la popolazione dell’Etiopia del 1984 al Live Aid e al Mandela Day. E non risparmiò attacchi durissimi a Tony Blair per la partecipazione alla guerra in Iraq. 

George Michael, o dell’insostenibile leggerezza dell’impegnarsi negli edonistici Ottanta.  

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