giovedì 10 agosto 2017

PSICOLOGIA. UN SAGGIO DI P. BLOOM. P. LEGRENZI, I danni morali dell’empatia, IL SOLE 24 ORE, 5 agosto 2017

Nel 2001 Joshua Greene, dell’Università di Harvard, pubblica su Science una ricerca che è divenuta un classico degli studi sulle basi neurali dei dilemmi etici. Greene ha presentato ai suoi soggetti storie come quella, celeberrima, concepita come esperimento mentale nel 1967 da Philippa Foot: «Una locomotiva sta per travolgere cinque operai. Puoi intervenire su uno scambio e deviare la locomotiva su un altro binario uccidendo un solo operaio. Che cosa fai? Uccidi un operaio e ne salvi cinque, oppure non fai nulla?». La grande maggioranza delle persone preferisce deviare la locomotiva.


Immaginate ora di trovarvi su un viadotto. Potete spingere un passante corpulento. Se lo fate cadere sullo scambio, la locomotiva non travolge i cinque operai. In questo secondo caso la maggioranza non fa nulla.
Greene e colleghi sono andati a vedere quali sono le aree neurali coinvolte in queste due decisioni. Nel caso della situazione in cui dovremmo buttare giù il passante dal ponte, le aree del cervello deputate alle emozioni sono molto più attive rispetto al primo caso, quello dello scambio con intervento a distanza. Alle diverse localizzazioni neurali corrispondono due tipi di decisioni strutturalmente diverse. La prima innesca un calcolo costi-benefici, secondo la tradizione utilitarista che misura i pro e i contro. La seconda attiva un’identificazione emotiva con il passante corpulento. Il bilancio è in ogni caso di 5 a 1, ma se scatta l’empatia adottiamo una sorta di etica kantiana che ci prescrive di «non uccidere mai». Una conferma di questo modo di funzionare del nostro cervello la ritroviamo considerando la minoranza che decide di sacrificare il passante. La decisione è lenta, richiede più tempo: l’identificazione empatica con la vittima è immediata. Poi queste persone finiscono per bloccare la risposta spontanea e per adottare la fredda e razionale prospettiva utilitarista.
Jean-François Bonnefon, un giovane e brillante ricercatore che lavora a Tolosa nel gruppo di Jean Tirole, premio Nobel per l’economia del 2014, ha trasferito questi dilemmi a scenari in cui si deve decidere come programmare veicoli a guida autonoma. Il traffico impone comunque bilanci costi-benefici e una vettura a guida automatica Tesla ha ucciso il guidatore il 7 maggio 2016. Confrontando diversi scenari, Bonnefon ha scoperto che nel caso di una macchina a guida autonoma si preferisce il criterio utilitarista, salvando cinque persone e uccidendone una sola, anche quando questa persona è il passeggero della macchina. Nello stesso tempo, ben poche delle persone «utilitariste» dichiarano che acquisterebbero una vettura così programmata. Se il veicolo fosse di loro proprietà, preferirebbero che la guida autonoma salvasse «ad ogni costo» l’autista e i passeggeri. Ancora una volta scatta la trappola dell’empatia, la condivisione delle emozioni con chi è vicino. In conclusione, la tradizionale disputa filosofica tra kantiani e utilitaristi resta, alla prova dei fatti, senza una risposta perché ha troppe risposte.
Questi lavori hanno preparato il terreno per un recente libro «contro l’empatia» scritto da Paul Bloom, grande psicologo dell’università di Yale. La posizione di Bloom, molto discussa, non è contro l’empatia quando la condivisione delle emozioni altrui può produrre conseguenze benefiche per il prossimo a noi “vicino”. E tuttavia l’empatia non è sufficiente per guidare le azioni morali e fare del bene in scenari ricchi e complessi. Può essere contro-producente e frenare degli interventi di vasto respiro guidati da una logica consequenzialista, basata cioè su un bilancio costi benefici. Supponiamo – sostiene Bloom (p. 195) – che un’azione miliare preventiva avesse potuto impedire a Hitler d’uccidere milioni di persone nei campi di concentramento. Questo intervento sarebbe stato morale anche se l’azione militare avesse sacrificato persone innocenti. Un caso reale, raccontato nel film The Imitation Game, è quello in cui Alan Turing, durante la seconda guerra mondiale, riesce a costruire il primo calcolatore della storia e a decifrare il codice Enigma dei tedeschi. Una volta fatto saltare il codice era essenziale che i nemici non se ne accorgessero. Di conseguenza i britannici, pur sapendolo in anticipo, non preavvisarono Coventry che sarebbe stata bombardata. Lo decisero in base a un calcolo costi-benefici spietato ma razionale. Avrebbero salvato in futuro molte più vite lasciando bombardare Coventry.
L’empatia può essere usata in direzioni diverse, ma è comunque fuorviante. Pensiamo alla retorica statunitense anti-immigrazione. Quando Donald Trump conduceva la sua campagna elettorale nel 2015 era solito parlare di Kate – non usava il suo nome intero, Kate Steinle, solo Kate. Kate Steinle era stata uccisa a San Francisco durante un episodio che non si era riusciti a ricostruire con precisione, forse era stato un immigrato. Trump voleva suscitare empatia e imbastiva una storia immaginaria con protagonisti dei killer messicani. Anche nel libro ricordato da Bloom, Adios America di Ann Coulter, si parla non del fenomeno migratorio in generale ma solo di singoli episodi in cui le vittime sono sempre descritte in modo che il lettore si identifichi con loro, aizzando così l’odio anti-immigrati e legittimando le violenze delle polizie. Non ci sono molte ricerche empiriche sul fenomeno, ma gli psicologi Anneke Buffone e Michael Poulin ci hanno provato. Dapprima hanno chiesto alle persone di descrivere un momento, nell’anno precedente, in cui erano stati vicini a una persona che era stata maltrattata fisicamente o in altri modi. Chiesero quanto le persone si sentivano vicine alla vittima e quanto avrebbero voluto punire l’aggressore, anche con la violenza. Quanto più una persona si sentiva vicino alla vittima, quanto più ne condivideva le emozioni e le paure, tanto più avrebbe punito con la violenza l’aggressore. Questo risultato, ammettono i due ricercatori, si può spiegare in più modi: forse non è l’empatia a motivare l’aggressività ma solo la vicinanza con la vittima. Prepararono così un secondo esperimento, più ingegnoso. Alle persone si raccontava una gara tra studenti sconosciuti per un premio di venti dollari che si svolgeva in un’altra stanza dell’edificio. Poi le persone leggevano la stessa descrizione delle difficoltà finanziarie di uno studente, uguale in tutto e per tutto ma con due finali diversi. Un finale suscitava empatia (Non ho mai avuto così pochi soldi, è una cosa che mi spaventa) e l’altro era neutro (Non ho mai avuto così pochi soldi ma la cosa non mi riguarda). Le persone in cui era stata attivata l’empatia verso lo sconosciuto si comportavano poi in modo diverso: la conoscenza diretta non è un fattore essenziale.
In tutti questi casi, purtroppo, l’empatia non riesce ad andare oltre a un altruismo dal limitato raggio d’azione. Si è soliti dire che l’empatia è la strada verso la bontà. Questo può essere vero nel momento in cui abbiamo di fronte chi soffre. E tuttavia questa identificazione, se non collocata razionalmente in un quadro più ampio, può essere fraintesa e causare guai in un mondo complesso come il nostro. Trump ha usato l’empatia contro i migranti messicani. In Italia per fortuna c’è un clima culturale diverso e spesso i racconti dei media attivano empatia in senso opposto, per esempio per il migrante in mare, in pericolo di vita. Tutti approvano il salvataggio, ovviamente. Non tutti, però, sono consapevoli che questo gesto isolato suscita speranze in altri potenziali migranti aiutando indirettamente chi lucra su questo traffico talvolta mortale. Proviamo empatia per il naufrago, ma anche per il sindaco del paesino veneto che è costretto, contro l’opinione di molti concittadini, a ospitare migranti in una piccola comunità refrattaria a persone sconosciute e difficilmente integrabili. Molta condivisione delle emozioni, poco atteggiamento razionale e con visioni a lungo termine basate su forme di altruismo equilibrate e distribuite nel tempo e nello spazio. Il cardinale vicentino Pietro Parolin, Segretario di Stato Vaticano, forse ignora l’esistenza di Paul Bloom, ma ha adottato una prospettiva simile parlando recentemente ai rappresentanti dei «Veneti nel mondo». Ha dichiarato con fermezza che la gestione del fenomeno migratorio «non può essere affidata solo alla generosità e al buon cuore dei singoli».
Questa tendenza umana a ragionare nell’ambito di scenari “locali”, guidati da empatia a corto raggio, viene da molti studiosi attribuita alle condizioni di vita in piccoli clan tipica del nostro lungo passato pre-agricolo. Quando invece siamo passati a società complesse è stato necessario introdurre norme impersonali, oggettive ed esteriori, la morale insomma. Dati i limiti incorporati nei modi di funzionare del nostro cervello oggi non è più sufficiente un coordinamento razionale delle preferenze di poche decine di persone. Diverrebbero necessari ogni volta costi di transazione troppo alti. Meglio una morale stabile, esteriore, condivisa. Un vivace dibattito aperto da Kyle Stanford dell’università di California sulla più importante e nota rivista di psicologia parte proprio dall’osservazione polemica che la preferenza di gusto per un gelato non è comparabile con il disgusto per i nazisti.

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