sabato 19 agosto 2017

SOCIOLOGIA E ANTROPOLOGIA DEL TERRORISMO ISLAMICO. E. MARTINI, Renzo Guolo: il «vuoto» del rapper col kalashnikov, IL MANIFESTO, 10 gennaio 2015

Da rapper a jihadista il salto può sembrare iperbolico. Eppure può essere molto breve, nella «modernità liquida». Il professore Renzo Guolo, ordinario di Sociologia e Sociologia delle religioni presso le Università di Trieste, Padova e Torino, spiega i motivi per i quali un giovane che nasce e cresce nel cuore dell’Europa può sentirsi affascinato e redento dal radicalismo islamico.


Partiamo dall’assunto che non vanno confusi Islam e jihadismo. Allora perché certi giovani europei si trasformano in soldati dell’Islam?
Il radicalismo è una corrente dell’Islam politico. È un’ideologia politica che usa simbologie religiose e cerca una convalida nei testi sacri. Certo, i confini non sono semplici da marcare ma la questione parte da qui. Anche perché non sempre chi arriva al radicalismo islamico ha avuto un’educazione religiosa. Anzi spesso siamo nel terreno dell’eterodossia totale. Basti pensare che tutti i grandi leader, tranne al-Baghdadi, non hanno titoli religiosi, sono autodidatti, e spesso hanno invece una formazione scientifica.
Perché oggi questa ideologia ha grande successo anche nelle periferie europee?
Perché, come ogni grande narrazione, l’ideologia islamista radicale copre dei vuoti di senso e di identità tipici della gioventù. Non a caso in Iraq e Siria si arruolano migliaia di giovani europei che in buona parte non sono giunti alla radicalizzazione attraverso le moschee. A volte infatti il percorso verso il radicalismo islamista si nutre di marginalità e piccola delinquenza. L’ex rapper che diventa stragista dimostra come si possa passare attraverso un sottoprodotto della cultura occidentale – inserito in un contesto di devianza che deriva da precise condizioni sociali – e, alla fine del percorso, subire una duplice crisi di identità e di senso. Non sentirsi più appartenere completamente né alla cultura occidentale, avendone vissuto solo i sottoprodotti o le tecnologie, né alla cultura islamica che con regole rigide dà senso ad ogni cosa. Il risultato è un vuoto di identità che alcuni cercano di colmare con l’Islam radicale. Che affascina come certe ideologie rivoluzionarie nel secolo scorso.
Quindi l’utilizzo dell’elemento religioso è casuale?
No, e non si può dire nemmeno solo che sia strumentale. Ma per capire non possiamo usare una chiave di lettura occidentale, che divide nettamente la religione dalla politica. Siamo davanti a un’ideologia politica che reinterpreta in funzione mobilitante un repertorio simbolico religioso che è a disposizione di tutti. Gli islamisti si autodefiniscono movimenti “rivoluzionari”, perché danno forma a un nuovo ordine, quindi non nel senso usato dai movimenti occidentali del ’900. Certamente, c’è differenza tra un intellettuale e chi poi diventa carne da macello. Paradossalmente però quella tendenza nichilista all’auto e all’etero distruzione, quell’essere per la morte che è stata presente nei giovani di molte generazioni, trova giustificazione nell’ideologia islamista che fornisce obiettivi e finalità. Senza cadere troppo nell’interpretazione psicologica, ma c’è anche questo.
Vediamo allora i contenuti di questa ideologia? L’Islam politico ha una lunga storia: dai Fratelli musulmani in poi, passando per la rivoluzione komeinista che affascinò anche la sinistra europea antimperialista e terzomondista. Ma in occidente, dove trova le sue radici?
L’affermazione coranica che viene usata come slogan fin dai tempi dei taleban è: comandare il bene e proibire il male. Questa ideologia che trova antenati nell’Egitto e nell’India a dominazione coloniale, per i giovani europei si riaggancia, più che all’antimperialismo classico – che è un concetto a loro estraneo – all’anti occidentalismo. In un mondo globalizzato, dove la distinzione tra globale e locale diventa irrilevante, il conflitto con l’altro diventa il rifiuto totale di quell’occidente dove non si è riusciti a trovare un posto. E nel campo del nemico ci stanno tutti: Israele, gli Usa e quella che chiamano la west toxification. La civiltà occidentale diventa cioè ai loro occhi un sistema culturale che ha una forma religiosa e politica – la società giudaico-cristiana e la democrazia – totalmente estrenea alla loro cultura, da rifiutare totalmente. Ovviamente il terreno fertile di questa ideologia non sono le élite cosmopolite, ma coloro che non sono riusciti a trovare uno spazio che non sia di precarietà e marginalità, e hanno vissuto solo i sottoprodotti della cultura occidentale, scoprendone tutti i limiti. È nel cortocircuito dell’integrazione che i predicatori radicali hanno buon gioco offrendo alla sottocultura da ghetto che è parte dell’occidente un’alternativa di totale rifiuto ed estraneità, una causa giusta. Naturalmente il radicalismo islamico fa presa anche sulle classi medie, come succedeva pure nei movimenti degli anni ’70. Tra i movimenti “rivoluzionari” degli ultimi 100 anni questo è forse quello che ha più storia: tutti gli altri si sono bruciati nell’arco di un decennio, mentre questa utopia reazionaria, malgrado tutti gli scacchi politici che ha subito, continua a fare proseliti. Ovviamente conta molto il quadro politico internazionale, ma è nella modernità liquida che riemerge il tema delle ideologie.
Quindi non c’è via d’uscita?
A breve no. Il nodo vero però è che l’Islam non riesce a contrapporre un discorso efficace di dissuasione. La repressione è essenzialmente politica e ad opere dei regimi che si tengono saldi in un sistema di alleanze internazionali. Dire che il buon musulmano non uccide non basta. Ci sarebbe bisogno di una grande battaglia culturale interna al mondo islamico che affronti tutti i nodi della modernità. Difficile, per una religione che non ha gerarchie, e dove la visione dell’islam secondo uno jihadista col kalashnikov vale tanto quanto quella di un mistico sufi. Vince solo chi riesce a organizzarsi politicamente. Certo, favorire lo scontro di civiltà è il modo migliore per alimentare il radicalismo islamico.
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