giovedì 27 agosto 2015

CINEMA E SOCIETA'. M. PEZZELLA, Lo schermo rassicurante sulla realtà, IL MANIFESTO, 27 agosto 2015

L’ultimo libro di Gaspare De Caro, Rifon­dare gli ita­liani (Jaca Book), è una sto­ria non con­ven­zio­nale del cinema neo­rea­li­sta ita­liano e dei suoi effetti sulla cul­tura e sull’immaginario col­let­tivo del secondo dopo­guerra. In quel con­te­sto sto­rico, una natu­ra­lis oboe­dien­tia, una ser­vitù volon­ta­ria, per­mette – secondo de Caro — la rimo­zione dei traumi sto­rici del fasci­smo e della guerra per­duta: la cul­tura ita­liana viene rico­di­fi­cata in ter­mini di con­ci­lia­zione e unità nazio­nale.

La sto­ria del cinema neo­rea­li­sta si divide tra una breve e intensa atti­vità testi­mo­niale e cri­tica e una pro­du­zione media dif­fusa, in cui gli epi­goni diven­gono inter­preti della buona coscienza nazio­nale e creano un «cinema della rimo­zione, una scuola di oboe­dien­tia»: «Di fatto ciò che dà senso omo­ge­neo e uni­fi­cante al cinema del neo­rea­li­smo, debi­li­tando le testi­mo­nianze tra­sgres­sive, è l’impegno col­let­tivo a esor­ciz­zare… gli ingrati fan­ta­smi della guerra e del dopoguerra».

Una ver­go­gna senza fine

La volontà di tra­sgres­sione radi­cale cul­mina nelle due grandi tri­lo­gie di Roberto Ros­sel­lini e Vit­to­rio De Sica. In esse diviene visi­bile, con­tro ogni reto­rica popu­li­sta e nazio­nale, lo stato di umi­lia­zione e deso­la­zione, che segue l’8 set­tem­bre e segna l’immediato dopo­guerra. Si può leg­gere Ladri di bici­clette come la sto­ria di una gene­ra­zione pre­ci­pi­tata dalle altezze pseudo impe­riali e dalle sue aquile di car­ta­pe­sta in una dere­li­zione e in una ver­go­gna senza fine di fronte ai pro­pri figli; o si può rico­no­scere, per fare un altro esem­pio, la caduta di ogni ordine sim­bo­lico e morale, nella duris­sima sequenza di Paisà (epi­so­dio di Napoli), quando lo scu­gnizzo porta il sol­dato ame­ri­cano nella grotta infera dove si nascon­dono i soprav­vis­suti dei bom­bar­da­menti, senza casa e ridotti a una vita elementare.
A que­sto valore di memo­ria e di testi­mo­nianza il cinema neo­rea­li­sta pro­gres­si­va­mente rinun­cia. Pla­cata l’intensità della tra­sgres­sione, esso si adatta a costruire l’immagine mitica di un popolo povero e scon­fitto, ma non disgre­gato e non umi­liato, sostan­zial­mente immune dall’aliena per­ver­sione del fasci­smo e della guerra civile e inol­tre natu­ra­li­ter pio e reli­gioso. Nasce allora, secondo De Caro, il molto ita­liano atei­smo cat­to­lico, in cui si rico­no­scono molti espo­nenti della cul­tura ita­liana e infine lo stesso Rossellini.
Con poche ecce­zioni, il cinema ita­liano obbe­diente al nuovo regime assume il «ruolo pri­vi­le­giato di ordi­na­tore del Sen­tire Comune», per essere poi sosti­tuito dalla tele­vi­sione. A rigore, per­fino nella tri­lo­gia della guerra di Ros­sel­lini ci sono alcune omis­sioni che – se non ne com­pro­met­tono il signi­fi­cato dirom­pente — sono però signi­fi­ca­tive: come il silen­zio sui bom­bar­da­menti alleati su Roma o sulla per­se­cu­zione con­tro gli Ebrei (di cui si tace per­fino in Ger­ma­nia anno zero). Primi sin­tomi di un gene­rale ripie­ga­mento della cine­ma­to­gra­fia neo­rea­li­sta sul mito di un esul­tante amore per gli Alleati inva­sori e sulla estra­neità degli Ita­liani alle peg­giori effe­ra­tezze del periodo nazista.
«Un biso­gno di rimo­zione spinto fino all’allucinazione col­let­tiva» tra­sforma la Resi­stenza da lotta reale in mito: in que­sta let­tura retro­spet­tiva e defor­mante del pas­sato, a par­tire dal regime domi­nante nel pre­sente, il fasci­smo diviene un epi­so­dio «subito e non par­te­ci­pato dalla mag­gio­ranza della popo­la­zione», la per­se­cu­zione raz­ziale qual­cosa che non ha coin­volto gli Ita­liani, le stragi delle guerre colo­niali sono can­cel­late dalla memo­ria. Si costrui­sce così un imma­gi­na­rio col­let­tivo irre­spon­sa­bile, incon­sa­pe­vole dei traumi subiti e inferti, lar­va­ta­mente dispo­ni­bile a una loro ripe­ti­zione più o meno edulcorata.

La Resi­stenza tradita

La Resi­stenza viene risolta «in una ver­sione nobi­li­tante della tra­di­zione nazio­nale, dis­sol­ven­done dif­fe­renze e anta­go­ni­smi secondo un ras­si­cu­rante para­digma di unità poli­tica e armo­nia sociale». Viene così creata come atto fon­da­tivo della nuova Repub­blica una falsa memo­ria, che doveva ser­vire ad «aval­lare come discon­ti­nuità e rin­no­va­mento la con­ti­nuità e la con­ser­va­zione». La Resi­stenza non è più per­ce­pita come guerra civile con­tro i fasci­sti e tanto meno come lotta di classe, ma viene ri-narrata come secondo Risor­gi­mento, con­tro l’iniquo inva­sore tede­sco. Diviene così il mito fon­da­tivo di una sto­ria pro­gres­siva e demo­cra­tica, con­di­viso dal comu­ni­smo togliat­tiano. Il fasci­smo diviene un feno­meno aber­rante e cir­co­scritto, estra­neo alla «vera» natura, sana e gene­rosa, di un popolo fatto di «brava gente» demo­cra­tica.
Umberto D. di De Sica è l’ultimo grande film «testi­mo­niale» del neo­rea­li­smo ita­liano: l’umiliazione e il trauma qui sono visti nel con­te­sto della quo­ti­dia­nità post­bel­lica, prima che la sta­gione con­su­mi­stica ne rimuo­vesse quasi per intero le tracce visi­bili. Per una volta ancora De Sica testi­mo­nia come la «dimen­sione sovrana, ulti­ma­tiva, della Norma» porti alla disgre­ga­zione della pro­te­sta col­let­tiva, ridotta ormai a un rituale, depri­vata della sua forza con­flit­tuale. Men­tre innu­me­re­voli sono gli esempi di con­for­mi­smo ricor­dati da De Caro, scon­fi­nanti nel grot­te­sco, incon­sa­pe­vole pre­lu­dio al fio­rire della com­me­dia all’italiana.

Un gene­rico umanesimo

In effetti ogni evento trau­ma­tico e tra­gico viene deru­bri­cato in un gene­rico uma­ne­simo, con­dito di bat­tute e sor­risi ammic­canti; come quelli di un rici­clato Came­rini in Molti sogni per le strade (1948), dove un disoc­cu­pato tenta di rubare un’automobile e alla fine trova un bel posto di lavoro (grot­te­sca revi­sione di Ladri di bici­clette), men­tre in Come persi la guerra il comico Maca­rio risale la peni­sola sulla fal­sa­riga di Paisà. «A Roma mica è suc­cesso gnente, tutto in piedi», si pro­clama all’inizio di La vita rico­min­cia di Mat­toli.
In alcuni momenti il libro di De Caro fa venire in mente quanto dice Sebald nel suo Sto­ria natu­rale della distru­zione: il desi­de­rio di oblio e di tra­sfi­gu­ra­zione mitica dell’accaduto è par­ti­co­lar­mente pro­fondo in quei popoli che devono sop­por­tare allo stesso tempo il trauma della vio­lenza eser­ci­tata sugli altri e quello della distru­zione subita, in un com­plesso di colpa e di umi­lia­zione. La memo­ria pre­fe­ri­sce abo­lirsi in una più tol­le­ra­bile imma­gine di sogno, che lascia però intatte le cause pro­fonde del male avve­nuto. È vero per la Ger­ma­nia, è vero per la Fran­cia di Vichy, è vero anche per l’Italia del dopo­guerra, ben­ché sia pochis­simo riconosciuto.

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