Saccheggi, violenze, sporcizia e caos, soprattutto un incontrollabile caos. Il clima di liberazione collettiva (le danze, i massaggi, il nudismo, la musica, “peace and love”) che cede la scena, almeno in parte, all’arbitrio energumeno delle prime bande autonome, o più banalmente dei cani sciolti che svaligiano i frigoriferi e rubano i polli per giocarci a pallone. Un mondo che si disarticola, un colossale equivoco (tenere insieme la rivoluzione proletaria e il viaggio in India, la canna del fucile e la canna e basta, Mao e Jerry Rubin) che mostra tutta la sua fragilità e vaniloquenza.
Vacillano uno per uno i punti di riferimento fin lì collezionati dalla vivacissima controcultura giovanile, quella nata nei Sessanta ed esplosa nel subbuglio planetario del Sessantotto. A cominciare da Jerry Rubin, leader storico del movimento americano contro la guerra in Vietnam, pacifista, castrista, alter ego (e predecessore) dei nostri Cohn-Bendit e Rudi Dutschke: al Parco Lambro è presente, tiene conferenze, partecipa a dibattiti, ma è quasi totalmente ignorato tanto dai media quanto dai partecipanti.
Le star non sono più i leader politici carismatici, la star autoproclamata e autoconvocata, in quel giugno del 1976, è la massa ingovernabile dei presenti, un magma ribollente, irriducibile alla politica classica, dunque al concetto di “classe”, e perfino alla nuova politica dei gruppi marxisti comeAvanguardia Operaia e Lotta Continua, presenti al Festival con velleità di “servizio d’ordine” subito travolte dalla frenesia di massa. È come se l’oggetto di un esperimento sfuggisse di mano ai suoi artefici: il “proletariato giovanile” è come il mostro di Frankenstein, il creatore soccombe alla creatura.
Il reportage dell'Espresso del 1976
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Ne parlo con Eugenio Finardi, che di quel festival fu, insieme agli Area, la star, e oggi è un lucido e saggio artista, curioso degli uomini e del mondo (è in Cina, ci sentiamo via Skype). «Ho ricordi agrodolci, ero tra gli organizzatori insieme a Andrea Valcarenghi. Fu un grandissimo evento, ma fu anche la fine dell’innocenza, l’inizio dell’impazzimento. Prima c’erano stati altri festival di “Re Nudo”, a Zerbo, un paesino lombardo, ma erano cose piccole, era l’underground, poco più che concerti. Tutto cambiò, al Lambro, per l’enorme interesse mediatico. Arrivarono le telecamere. Credimi, furono soprattutto le telecamere a cambiare tutto e a scatenare la follia. Se due stavano solo litigando, davanti alla telecamera si menavano. Se uno era mezzo nudo, davanti alla telecamera si spogliava del tutto. Prima le nostre feste erano solo l’espressione di una certa Italia, cosmopolita e pulita, forte e innocente. Diventando evento di massa, attirando i media, salta tutto».
Quanto influì, nel “salta tutto”, la diffusione delle droghe? «La droga non pesava più di tanto», risponde Finardi. «Pesò molto di più la cialtroneria. Il virus mortale del narcisismo, ognuno che cerca di farsi notare a qualunque costo e la conseguente catena di deliri politici, una specie di gara furiosa a chi è più di sinistra, ricordo uno che spiegava a tutti che “il comunismo è solo il primo passo, il vero obiettivo è l’alveare”. Quando scesi dal palco, subito dopo avere cantato “Musica ribelle”, un tizio mi diede una sberla e mi gridò “fascista”, così, tanto per farlo (vale notare che quel tizio, pochi anni dopo, divenne un figurante fisso della Milano da bere, ndr). Era come se l’obiettivo fosse la perdita assoluta di ogni inibizione».
Chiedo a Finardi se non abbia ragione chi sostiene che a raccogliere i frutti di quella perdita di inibizioni, di quella libertà a tutti i costi, di quel “desiderio obbligatorio”, sia stato poi il consumismo, il mercatismo, insomma, qui in Italia, l’evoberlusconiano… «In quegli anni c’erano i semi della libertà, di nuove libertà, le prime radio libere, le culture alternative, i nuovi linguaggi giovanili.
Uscivamo da una straordinaria, forse unica stagione di liberazione, gli anni Sessanta, la fine del colonialismo, i diritti civili, il femminismo. Poi, come spesso capita, si esagera, si perdono la misura e il senso della realtà, si perde il controllo di quello che ti accade intorno.E a un certo punto è rimasto solo il business. La libertà è diventata il liberismo assurdo, con l’uno per cento degli uomini che è diventato ricco come il restante 99 per cento. Pensa soltanto al concetto di radio libera e di televisione libera che diventa, in pochissimi anni, radio privata e televisione privata. Direi che vale l’assioma secondo il quale le rivoluzioni le iniziano i sognatori, le portano a compimento gli strateghi e le concludono i dittatori». E di bello, che cosa rimane? Di bello e di giusto? «L’idea che si potesse vivere in modo differente. La discussione era come cambiare il mondo e come cambiare la vita. Ora la sensazione, da noi in Occidente, è di ineluttabile decadenza. Il sapore del futuro è un sapore che non abbiamo più da tempo, non so neanche se sapremmo riconoscerlo».
Finardi deve salutarmi, lo aspetta il treno Pechino-Shangai. Tre ore e mezza per mille e rotti chilometri, su rotaia magnetica a cinquecento all’ora. Chissà se è quello, il sapore del futuro. E chi l’avrebbe mai detto, quarant’anni fa, che la Cina sarebbe diventata un treno veloce; e che un cantante italiano ultra sessantenne, Eugenio Finardi, avrebbe dovuto spiegare alla sua giovane interprete cinese, che non ne aveva la minima idea, che cosa fu la Rivoluzione culturale.
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