martedì 17 gennaio 2017

FILOSOFI CONTEMPORANEI. G. MEOTTI, Il nuovo Dottor Stranamore, IL FOGLIO, 16 dicembre 2013

Peter Sloterdijk non corrisponde esattamente allo stereotipo del professore tedesco di filosofia. La sua prosa non è seriosa né convenzionale, e nessuno può certo accusarlo di essere banale. Post umanista dal grande successo massmediatico, docente di Filosofia a Karlsruhe e direttore dell’Istituto di Filosofia della Cultura presso la Akademie der Bildenden Künste di Vienna, Sloterdijk è una sorta di dottor Stranamore della filosofia occidentale, protagonista di martellanti campagne pubblicistiche nei feuilleton di tutte le testate in Germania. Per alcuni è un cazzaro, o “la versione teutonica di Bernard-Henri Lévy”. Per la Faz è invece “l’erede di Oswald Spengler”.


Fascista, comunista, anarchico, libertario, anticapitalista, genio, pagliaccio, maestro dello scandalo, filosofo della tv: per Sloterdijk le definizioni si perdono. Con un passato di estremista di sinistra e perfino di discepolo di Osho, è stato molte cose, dall’heideggeriano al nicciano, fino a scoprirsi, semplicemente, “cinico”. Discetta di tutto Sloterdijk, dall’eurotaoismo alla gnosi fino al consumatore come “l’ultimo uomo descritto da Friedrich Nietzsche in ‘Così parlò Zarathustra’”. Adesso in Italia esce in una nuova edizione per Raffaello Cortina il suo libro più famoso, “La critica della ragion cinica”, che è stato uno dei bestseller filosofici di maggior successo della recente storia tedesca.
Tutto il libro si condensa intorno a una provocazione: torniamo al cinico Diogene per battere l’Illuminismo, perché nella catastrofe della nostra attuale società, esser cinici nel senso antico è un ottimo espediente per imparare a vivere meglio. Una “critica della ragione cinica” sia nel senso negativo del termine critica (contro il cinismo che caratterizza la cultura odierna) sia in un senso positivo, come accade nella critica kantiana della ragion pura. Oggi ci si trova in quella che Sloterdijk chiama “falsa coscienza illuminata”: si sta in una prospettiva ideologica, sappiamo che i valori globali sono illusioni, ma sappiamo anche di non poterne fare a meno; ci si adatta a evitare i conflitti più violenti, conservando l’ideale illuministico dell’accordo razionale, benché anche questo ideale si sia rivelato inattuabile e si riduca a una sorta di ipocrita scelta del quieto vivere. In queste condizioni, l’intelligenza critica è stata sconfita e là dove ancora sopravvive rischia continuamente di sfibrarsi in un moralismo cupo e votato all’infelicità. Nulla di meno “cinico” di ciò. Allora Sloterdijk propone di recuperare “la vita” semplice: il diritto alla felicità, al corpo, a relazioni di vicinanza e di amicizia con gli altri.
Sloterdijk è un fanatico del postmoderno inteso come antidoto contro la classica metafisica occidentale, e da lì verso un “post umanesimo”. In questa logica rientra anche il suo elogio della decrescita, intesa come antidoto contro l’“extraprofitto” (un’eco del suo marxismo delle origini).
Secondo Adam Kirsch di New Republic, il pensiero di Sloterdijk in fondo è tutta una riformulazione del concetto nicciano di Übermensch, di superuomo. Il nichilismo di Sloterdijk può essere sintetizzato così: morto Dio e messi in fuga gli dèi della ragione, entrato in crisi l’umanesimo, l’uomo è diventato marcio, quindi dobbiamo rifarlo. Volete l’uomo nuovo? Volete realizzare il grande mito delle ideologie del Novecento? Fabbrichiamocelo in provetta, dice l’enfant terrible della filosofia tedesca.
Esponente della “cultura Suhrkamp”, l’intelligenza di sinistra dell’editore francofortese, nel 1999 Sloterdijk tenne una conferenza epocale al Leer Institut nel castello di Elmau, in Alta Baviera. Già il titolo dell’intervento, mutuato da un dialogo platonico, conteneva qualcosa di inquietante e di sinistro: “Regeln für den Menschenpark”, che in italiano suona “Regole per il parco uomini” o “per lo zoo umano”. Sloterdijk intendeva rispondere, niente di meno, che alla celebre “Lettera sull’‘umanismo’” che Martin Heidegger, il suo maestro e beniamino, aveva scritto nel 1946 al discepolo francese Jean Beaufret, teorizzando la fine dell’umanesimo classico e il trionfo della tecnica, foriero dell’impoverimento simbolico culturale dell’umanità moderna.
Già Adorno scriveva che il problema di Heidegger stava nella mancanza di appigli per confutare il suo pensiero: l’inafferrabilità diventa inattaccabilità. E’ lo stesso metodo di Sloterdijk, e di lui come di molti altri filosofi del pensiero debole contemporaneo. La tesi di Sloterdijk è che l’uomo contemporaneo “non può mai sperare di superare le attuali tendenze all’inselvatichimento, che da sempre accompagna i grandi dispiegamenti di potere, si tratti della brutalità guerresca o della quotidiana bestializzazione ad opera del divertimento disinibente dei mass media”. L’umanesimo è messo in crisi dall’“americanismo”. L’umanesimo, ha scritto Sloterdijk, ha fallito nell’addomesticare gli istinti animali dell’umanità.
Il rimedio per Sloterdijk viene dalla genetica che potrà purgare l’uomo dalla sua bestialità. “E’ tipico della nostra epoca tecnologica e antropotecnica”, scrive, “che la gente si ritrovi sempre più sul versante attivo e soggettivo della selezione, senza aver scelto volontariamente il ruolo di selettore. Quando le possibilità scientifiche si sviluppano in un campo positivo, la gente avrebbe torto di lasciare agire, al suo posto, un potere superiore, sia Dio, il destino o gli altri. In avvenire si dovrebbe giocare attivamente la partita e formulare un codice delle antropotecnologie. Questo codice verrebbe a modificare il significato dell’umanesimo classico, dimostrerebbe infatti che l’humanitas non è solo l’amicizia dell’uomo con l’uomo, ma implica anche, e in modo sempre più esplicito, che l’uomo rappresenti il potere supremo per l’uomo”.
Resta da sapere “se l’evoluzione porterà a una riforma genetica della specie umana, se l’antropotecnologia del futuro arriverà alla programmazione deliberata di caratteri genetici; se l’umanità sarà capace di passare dalla fatalità della nascita alla nascita scelta sulla base di una selezione prenatale”.
L’uso della parola “Selektion”, così carico di macabre connotazioni che rimandano alle selezioni nei campi di concentramento, nel testo gli procura severe critiche. E’ inaccettabile che questo allievo di Heidegger accosti parole come “evoluzione” e “selezione prenatale”. Impressionante, infatti, il fuoco di fila delle reazioni a cominciare da quella di Saul Friedländer, storico e sopravvissuto, presente a Elmau, che si è detto “costernato” per il discorso di Sloterdijk. Sulla Zeit di Amburgo, Thomas Asseheur ha bollato il discorso di Elmau come “scandaloso”, puntando l’indice sul “tremendo realismo della fantasia di selezione”. E aggiunge: “E’ il superuomo di Zarathustra”.
“Sloterdijk immagina un gruppo di filosofi e genetisti che revisiona la specie umana”, accusa anche lo Spiegel. Che, per criticarlo, pubblica in prima pagina un articolo intitolato “Un progetto genetico: il Superuomo”, corredato da foto di statue di Arno Breker, uno dei maggiori scultori del Terzo Reich.
Accerchiato da tante critiche, Sloterdijk chiama in causa “l’ayatollah Jürgen Habermas”, che accusa di essere l’ispiratore occulto della campagna di stampa contro di lui, e decreta la fine della teoria critica francofortese. “Quelle di Sloterdijk sono idee da genio del male”, gli risponde Habermas. Anche Die Zeit parla di “progetto Zarathustra”; “inquietante” è l’aggettivo usato dalla Berliner Zeitung. Il filosofo morale Ernst Tugendhat evoca il nazismo: “Quando sento Sloterdijk usare la parola ‘selezione’ penso alla rampa di Auschwitz”.
Sloterdijk non ha mai ripudiato la fabbricazione dell’uomo nuovo in provetta come rimedio ultimo ai disastri del mondo moderno. Ancora nel libro “You must change your life”, uscito pochi mesi fa negli Stati Uniti, Sloterdijk elogia “l’eugenetica liberale” distinguendola dalle politiche “sterminazioniste” di Germania nazista e Russia stalinista. Nel libro, Sloterdijk propugna un “codice delle antropotecniche” , vale a dire una formulazione della tecnica genetica come critica sociale applicata.
La vena utopistica di Sloterdijk deriva dal retaggio degli anni Sessanta, quando il filosofo vaneggiava di “una società senza classi”, di “socialismo democratico” e di come l’“uomo nuovo” si doveva sviluppare liberamente in una “auto-realizzazione armoniosa”. Il commento migliore a Sloterdijk è venuto da un saggio strepitoso su Die Zeit, a firma di un intellettuale francofortese come Axel Honneth: “Nulla di ciò che Peter Sloterdijk ha scritto nel corso degli ultimi due decenni è sembrato compatibile con lo spirito dominante dei tempi o con gli avversari di quello spirito”. Honneth definisce le tesi di Sloterdijk come un misto di “infantilismo, superficialità e chiacchiere inutili”.
Tempo fa Sloterdijk era tornato a scaldare il dibattito ideologico tedesco prospettando, dalle colonne della Faz, un sistema per eliminare i prelievi fiscali forzosi. “Gli stati fiscali organizzati reclamano ogni anno la metà dei benefici economici delle proprie classi produttive per poi riversarli al fisco, senza che le persone coinvolte tentino di salvarsi con la sola reazione plausibile, la guerra civile antifiscale”. Il filosofo sostiene che la tassazione non ha credenziali democratiche, che l’Europa vive sotto una sorta di socialismo reale delle tasse, che l’imposta progressiva sul reddito è una forma di esproprio e che la sinistra coincide ormai con la richiesta di portare il prelievo al sessanta per cento e oltre. Apriti cielo. La soluzione prospettata da Sloterdijk ha scatenato non poche risate: per il filosofo le tasse devono essere “un dono spontaneo delle classi più agiate a quelle meno abbienti”.
Ma è in campo politico che il pessimismo paradossale e manieristico di Sloterdijk conduce a esiti risibili. In un saggio dal titolo “Antisemitismo nella Germania di oggi”, la studiosa Susanne Urban riporta le idee di Sloterdijk, il quale sostiene che l’Olocausto, i bombardamenti alleati su Dresda, l’atomica di Hiroshima e l’11 settembre sono eventi moralmente sullo stesso piano. Per questo il mese scorso Henryk Broder, editorialista della Welt, ha riconsegnato il prestigioso premio Ludwig Börne come segno di protesta per la selezione quest’anno di Sloterdijk. Il filosofo heideggeriano, scrive Broder, è colpevole di aver definito gli attentati dell’11 settembre come “dei problemi ai grattacieli” e che fanno parte dei “fatti minori” della storia.
“Due o tremila morti in un giorno rientrano nella variazione naturale”, scrisse Sloterdijk. “Ci sono giorni che non si dimenticano”, dice al Foglio Henryk Broder. “Per alcuni è la costruzione o la caduta del Muro di Berlino. Per altri è il massacro di Tiananmen o la fine sanguinosa della Primavera di Praga. Uno non deve essere stato lì presente, è sufficiente ricordare. Per me è l’11 settembre 2001, con la gente che precipita dalle finestre. C’è chi ha approfittato del momento per dimostrare la propria superiorità intellettuale, come Sloterdijk. In un’intervista al quotidiano Welt am Sonntag ha parlato di un ‘incidente ai grattacieli americani’, come se da qualche parte avesse fatto cilecca l’aria condizionata”. Sarà per questo che lo storico francese Alexandre Adler ha chiamato Sloterdijk “filosofo proletaroide”?
Il terrorismo islamista non esiste, insinua Peter Sloterdijk. “Si ha un nemico solo quando lo si può colpire, distruggere, eliminare. Gli islamisti radicali pianificano attacchi terroristici, ma non sono nemici. Sono solo una manifestazione perversa dell’industria dell’intrattenimento che è la stampa e ormai anche la politica. Il terrorismo è un programma di intrattenimento per l’ultimo uomo”.
E i morti delle Torri gemelle? “Un programma di intrattenimento con morti veri, come già succedeva a Roma, ai tempi dell’impero, coi gladiatori che erano tutti orientali, e dalla periferia venivano al centro dell’impero, per farsi usare in giochi di sangue. E’ lo stesso modo di vedere e di godere della violenza e del terrore che ritroviamo nella moderna teoria dei media e nell’estetica moderna. I terroristi hanno successo, perché hanno capito che il loro programma è molto richiesto in occidente, come lo era un tempo il circo per i romani, che oggi è diventato un circo globale”.
Quando il professor Sloterdijk tenne un dibattito su questi temi assieme a Oskar Lafontaine, ex ministro delle Finanze e capo della Spd, la Berliner Zeitung titolò così: “Il re e il suo folle di corte”, riservando la definizione meno lusinghiera al dottor Stranamore della filosofia occidentale.

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