domenica 27 ottobre 2013

UN SAGGIO SULLA FILOSOFIA FRANCESE, FABIO RAIMONDI, La scommessa aperta di un sapere critico. Recensione a A. Badiou, L'avventura della filosofia francese, IL MANIFESTO, 26 ottobre 2013

Scritti in momenti diversi, i testi riuniti nel volume restituiscono un percorso di ricerca ancora in corso
Libro non facile ma utile, L'avventura della filosofia francese. Dagli anni Sessanta (DeriveApprodi, pp. 200, euro 17) di Alain Badiou, perché consente di riaprire il discorso sul rapporto tra filosofia, scienze, politica e educazione. Non so con quale criterio siano stati ordinati i testi (rispettivamente su: Deleuze, Kojève, Canguilhem, Ricoeur, Sartre, Althusser, Lyotard, F. Proust, Nancy, Cassin, Jambet-Lardreau, Rancière), ma è nell'ultimo, il più recente, che si trovano le coordinate politiche e teoriche per inquadrare il pensiero dell'autore e la sua Prefazione .



 In essa, infatti, ciò che altrimenti sarebbe una raccolta di scritti sparsi, composti in un ampio arco temporale (1967-2006), è sistematizzato come «momento filosofico francese», modestamente comparato «tanto al momento greco classico quanto a quello dell'idealismo tedesco», così da scivolare, suo malgrado, nel nazionalismo filosofico, alla pari di altri brand dagli improbabili nomi quali French Theory o, visto il nostro provincialismo, Italian Theory .

 
Conoscenza è potere
La data d'inizio della raccolta non è casuale. Il 1966-67, infatti, è il momento in cui la Rivoluzione culturale cinese indica un «orientamento contrario» alle correnti allora dominanti, tra cui lo strutturalismo, nel quale si inserirono col loro «neo-scientismo» basato sulla «formalizzazione» sia Althusser (su di lui è il saggio del '67) sia Lacan. Il «momento francese» comincia qui il suo percorso, poi amplificato dal Maggio '68: «rivolta anti-autoritaria che mira al rovesciamento delle gerarchie fondate sulla detenzione di un sapere» e «contro l'organizzazione verticale della sua trasmissione»: «l'idea è che la sperimentazione operaia diretta abbia un'importanza per lo meno altrettanto grande» di quella «fondata sul sapere tecnico-scientifico degli ingegneri e dei capi». Non scadendo nella formula «volgare»: «ogni sapere è un potere, abbasso l'autorità del sapere!» in cui molti sono incappati e incappano - ma è come camminare sul ciglio di un burrone, scivolare verso il basso fa parte della natura del luogo - tale idea segna il «passaggio da una sorta d'ideologia filosofica dominante basata sul paradigma dell'assolutezza dei saperi scientifici e una serie di fenomeni politico-ideologici i quali, al contrario, fanno maturare il convincimento che il legame tra sapere e autorità sia una costruzione politica oppressiva, che deve essere abolita, se necessario, con la forza». Il «momento francese» è tutto qui, e non è poco, perché si tratta «di un problema complicato: come sciogliere, abolire le figure esistenti di relazione tra il sapere e l'autorità, tra il sapere e il potere» e, di conseguenza, come «concepire una trasmissione - del sapere e dell'esperienza, anche rivoluzionaria - che non sia imposizione»? Il passaggio è attualissimo e irrisolto. La Francia e le sue colonie (ex e non) sono state, nella seconda metà del XX secolo e accanto ad altri «momenti» magari meno visibili, una delle scene più importanti nel campo di battaglia della filosofia contemporanea. Il loro contributo principale è l'impostazione della «questione del soggetto» come «elemento comune» che consente di non «contrapporre concetto ed esistenza», consentendo così alla filosofia di uscire «dall'accademia» e collocarsi «direttamente sulla scena politica» grazie a uno «stile di espressione» tale da «rivaleggiare con la letteratura». Il processo di soggettivazione, infatti, mostra che «la scienza è ben più vasta e profonda rispetto alla semplice questione della conoscenza», perché è «un'attività produttiva» che mobilita «qualcosa di più oscuro, di più legato alla vita, al corpo» e che, come evidenzia il saggio su Sartre, «concentra in sé forze più vaste». Ci si trova così a un crocevia importante e delicato, perché da un lato si apre la questione di come tale pratica sia stata sussunta, in modo indebito forse, certamente becero, ma reale, dal mercato e dal capitalismo globale (e le sliding doors tra ex maoisti e ideologi del capitalismo hanno avuto la loro importanza), ma, d'altro canto, non si può misconoscerne la rilevanza nel ridimensionamento del positivismo e dello scientismo. Tralasciando la prima questione, troppo ampia e di cui il testo non tratta, è indubbio che il «momento francese» abbia permesso di mettere in crisi i confini di molte discipline, soprattutto nell'ambito delle scienze umane e sociali; abbia supportato l'esplosione della creatività personale e collettiva in ogni campo; abbia messo in discussione il principio di autorità, inserendosi a pieno titolo nella modernità; abbia, in sostanza, aperto la vita a una grande libertà di pensiero e di azione. Molti sono i modi in cui tutto questo è stato filosoficamente declinato e questo libro ne fornisce numerosi esempi. Come già accaduto in altri momenti storici e in altri luoghi del mondo, la volontà che «la filosofia agisca in nome proprio» esprime un desiderio di libertà, politica in ultima istanza, tramite il quale solo se tutta la vita è impegnata si genera il gesto filosofico, raro ma universale, dell'invenzione del concetto come «cammino di cui non si conosce il punto d'arrivo».
Un debole assioma Le proposte enunciate dal «momento francese», però, indicano spesso vie troppo vaghe o troppo astratte, com'è il caso, pur nelle differenze, di Rancière e Badiou. Se si tratta di evitare sia «il Partito al di sopra del movimento» sia «un'immanenza movimentista vitale», mi pare difficile uscirne col «maestro ignorante» o con «l'aristocrazia proletaria». Democrazia dal basso con annesso spontaneismo delle masse e progressiva inclusione della «parte dei senza parte», e avanguardia organizzativa con annesso sapere specialistico di pochi, sembrano lambire, talvolta molto da vicino, ciò che bisognerebbe abbandonare. Rancière e Badiou, inoltre, condividono l'assioma che l'uguaglianza è una «dichiarazione» e non un processo. Politicamente questo ha una valenza forte e, in alcuni contesti, potenzialmente rivoluzionaria, ma è conoscitivamente debole, a meno di non prescindere dal principio di realtà . È nel confronto con essa che i saperi si dispongono su scale, mutevoli ma gerarchiche, di validità, efficacia e universalità. La sopravvalutazione del performativo come pura capacità inventiva del linguaggio, che plasma il mondo solo per il fatto di pronunciarsi porta sì all'aumento dell'informazione ma anche alla diminuzione della comunicazione. Se dichiararsi uguali è esserlo, perché, come dice Françoise Proust, «cominciare è un atto dichiarativo» non si ricade in una concezione idealistica del soggetto come libertà assoluta? Oppure, se il soggetto è il punto in cui transita la fedeltà a una procedura di verità innescata da un evento che rompe l'ordine dell'apparire, non si ricade in una concezione forte dell'ideologia? Per uscirne senza disperdere l'eredità del «momento francese», bisognerebbe ripartire dai suoi limiti, implicitamente mostrati dal testo di Badiou, riproblematizzandone innanzitutto le coordinate teoriche e politiche.

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