domenica 27 ottobre 2013

MULTICULTURA E GLOBALIZZAZIONE. FRANCIA. S. MONTEFIORI, La Francia è meno francese, LA LETTURA, 26 10 2013

L’islam è lo zerbino delle nostre conversazioni, lo sfogo dei nostri dispiaceri, la prova della nostra esistenza: non mi fido, quindi sono. Meglio ancora: l’islam ci permette di odiare da progressisti, di denigrare in nome della donna, della Repubblica, della difesa degli ebrei, del rispetto della scuola o della libertà degli omosessuali; in nome dell’amore della Francia e della sua sopravvivenza». Il progressista che, al contrario di molti suoi amici, si rifiuta di odiare è Claude Askolovitch, uno dei più noti giornalisti francesi. Ebreo, di sinistra, l’anno scorso ha perso il posto di caporedattore a «Le Point» per essersi opposto a un’inchiesta-denuncia sulla carne halal (macellata secondo il rito islamico), un’inchiesta poi uscita qualche mese dopo il suo addio al giornale con il titolo di copertina, rimasto celebre, «Questo islam sfrontato».




Ora Askolovitch accetta di parlare sì dell’islam, ma per difenderlo nel suo libro Nos mal-aimés: Ces musulmans dont la France ne veut pas (I nostri figliastri: i musulmani e la Francia che non ne vuole sapere). Lo incontriamo in un caffè del XVIII arrondissement, il quartiere di Montmartre, di Amélie Poulain e anche delle preghiere islamiche per strada che tanto irritano il Front national. «Certe volte penso che i musulmani abbiano in Francia lo stesso ruolo che Berlusconi ha in Italia presso chi non lo vota: cristallizzano lo scontento, tutto quel che va male è colpa loro, il Paese è in crisi e infelice e sappiamo con chi prendercela», dice Askolovitch. Solo che i musulmani non hanno responsabilità politiche né sostenitori.
Nei giorni in cui la Francia è scossa da sondaggi che danno il Front national come primo partito nelle intenzioni di voto per le prossime europee, il dibattito culturale e politico è dominato da due libri usciti a poche settimane di distanza l’uno dall’altro: quello di Askolovitch, accusato di essere islamofilo, e L’identité malheureuse (L’identità infelice) del filosofo Alain Finkielkraut, criticato come islamofobo.
«Siamo due ebrei di Francia — dice Askolovitch a “la Lettura” — che hanno una cosa in comune: la tristezza e il pessimismo per una Repubblica che si sta perdendo. Solo che lui incolpa l’islam, che si starebbe mangiando l’identità francese, e denuncia l’acquiescenza nei suoi confronti; io incolpo i pregiudizi della società francese verso milioni di concittadini».
È un dibattito interessante non solo perché parla dello stato della Francia nel 2013: l’immigrazione di massa, la questione dei modelli di integrazione, l’alternativa tra assimilazione francese e multiculturalismo anglosassone sono temi fondamentali per tutto l’Occidente, Italia compresa. E il pensiero dominante, almeno in Francia, è diventato quello che un tempo si sarebbe definito «politicamente scorretto».
Altro che il vecchio mantra del rispetto della diversità, altro che la retorica dei buoni sentimenti a lungo rimproverata ai socialisti, magari definiti gauche caviar (la sinistra al caviale). Oggi la corsa è a mostrarsi schietti, rudi, decisi contro le presunte prepotenze dei musulmani e degli stranieri. «Nel momento in cui il mio amico Manuel Valls, ministro dell’Interno, dice che i rom, ossia un’intera popolazione presa nel suo complesso, non sono in grado di integrarsi e devono tornare in Bulgaria e Romania, è evidente che la battaglia culturale è perduta — continua Askolovitch —. A farne le spese sono soprattutto i musulmani, numerosi e francesi talvolta da generazioni, ma indicati e trattati come un corpo estraneo». A Trappes, a neanche un’ora d’auto da Parigi, nel luglio scorso un controllo su una donna velata ha causato tre giorni di sommossa. Mercoledì scorso è stata aperta un’inchiesta per violenza della polizia. Essere musulmani in Francia non è facile.
Negli anni Ottanta c’era un franco razzismo, praticato dai simpatizzanti del Front national, all’epoca ancora fieramente di estrema destra. «Oggi è più difficile combatterlo perché gli islamofobi sono anche le persone per bene, sono l’élite culturale e politica del Paese. In Francia si fanno cose assolutamente folli in nome della moderazione, della normalità repubblicana, della laicità. Le mamme che si coprono il capo con il foulard non possono accompagnare i bambini in gita scolastica, un uomo barbuto e una donna velata sanno che non troveranno lavoro, una maestra con il foulard islamico è stata licenziata dall’asilo Baby Loup (la battaglia giuridica va avanti dal 2008, ndr) anche se è un istituto privato e non c’era alcuna base legale per farlo».
Alain Finkielkraut, al contrario, pensa che la colpa sia dei musulmani e della loro incapacità di integrarsi: «Per la prima volta nella storia dell’immigrazione, chi viene accolto rifiuta a chi lo accoglie, chiunque esso sia, il diritto di incarnare il Paese ospitante».
Nella sua denuncia della modernità, nel suo rimpianto della Francia di un tempo, Finkielkraut mette insieme la critica della società post-letteraria dove la padronanza del francese e la cultura classica non sono più importanti, deplora le pose da eterna adolescenza di un’élite perfettamente rappresentata dal co-editore di «Le Monde» Mathieu Pigasse, che si fa un vanto di ascoltare musica punk, e soprattutto contesta il no degli islamici ai valori della maggioranza.
Finkielkraut pensa che l’essere francesi sia un privilegio da concedere a chi mostra di volersi comportare come tale: nella sua visione la Francia appartiene ai «francesi d’origine», e a chi è in grado di adeguarsi al loro stile di vita.
Askolovitch pensa invece che l’essere francese sia un dato di fatto, una realtà, condivisa da chi in Francia è nato, magari da genitori a loro volta nati qui, anche se si chiamano Abdel o Mohammed. «L’essere musulmano — aggiunge Askolovitch — non esaurisce l’identità di una persona. Mi ha scritto, per ringraziarmi del libro, una professoressa di lettere, militante socialista, bellissima donna, senza velo, musulmana che mangia halal. Dice che al lavoro, per non avere problemi, finge di essere vegetariana. In una stessa famiglia musulmana di Francia ci possono essere una cugina velata e un’altra che porta il tanga».
Uno dei meriti del libro di Askolovitch è di non avere scelto solo i «musulmani buoni», i laici occidentalizzati, per mostrare che in fondo sono come noi. Ha incontrato per esempio Azouz, che preferisce tenere separati uomini e donne quando ci sono ospiti a casa. «Abbiamo mangiato una sola volta alla stessa tavola, uomini e donne insieme, con una coppia di amici—racconta Azouz nel libro —. Eravamo a disagio, tutti. Non riuscivamo a parlare». Non è scioccante? Questo non è un problema? «Ci sono musulmani con cui mi trovo più a mio agio e altri meno — risponde Askolovitch —, ma il punto è che una situazione come quella riguarda poche famiglie. In Francia non c’è una sovversione islamista, il Kulturkampf è artificiale. E i musulmani hanno il diritto di lavorare, anche se sono religiosi. Invece vengono perennemente trattati con sospetto. Devono giustificarsi e dimostrare di non essere perlomeno fiancheggiatori dei terroristi». L’affare Merah ha contribuito a questo clima? «In parte. Ma molti dimenticano che tra le vittime di Merah c’era un soldato francese musulmano, Ibn Ziaten, e che sua madre Latifa da allora fa il giro delle banlieue per predicare contro l’estremismo. E lo fa tenendo il suo foulard sul capo».
In Gran Bretagna e negli Stati Uniti a nessuno verrebbe in mente di vietare il velo nelle scuole. «In Francia sì, ma ancora non basta — dice Askolovitch —. Quando non sarà il velo, e la carne halal, e il burqa, e tre bigotte che all’ospedale vogliono essere curate da una dottoressa, qualcosa ci inventeremo. E, inventando, renderemo ancora più isterico questo Paese di pazzi».

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