domenica 27 ottobre 2013

MULTICULTURA E GLOBALIZZAZIONE. DANIELE GIGLIOLI, Il recinto mentale che esclude gli altri, LA LETTURA, 20 ottobre 2013

Le immagini dei migranti annegati al largo di Lampedusa ci turbano in modo diverso da quelle di un terremoto o di un disastro aereo. Stavano venendo qui, stavano venendo da noi. Tentavano di attraversare le nostre frontiere; e le frontiere non sono solo esterne, ma anche interne. Se li piangiamo, significa che in minima parte il loro sbarco è riuscito — la parte ahimè peggiore, quella che ci induce a solidarizzare con gli altri solo nella misura in cui sono vittime. Un piccolo pezzo di loro ha preso posto nella geografia di ciò che definiamo «noi». Ma un posto inerte, scollegato, non connesso con ciò che pensiamo di potere e dover fare. Infatti non sappiamo che fare, e l’invocazione all’Europa perché ci aiuti ha più il sapore di uno scongiuro che di una scelta razionale. Il «noi» non è arrivato all’Europa. Alzi la mano chi si sente, nell’intimo, europeo.



Non solo perché non c’è, diceva sarcasticamente Henry Kissinger, un numero di telefono dell’Unione europea, ma nemmeno un sentire comune, un simbolo in cui riconoscersi, lo straccio di una squadra di calcio.
Commozione senza agency, senza soggetto, senza decisione. Per risultare efficace, la ristrutturazione del «noi» dovrà essere ben più radicale. Perché nemmeno il più accanito fautore dei respingimenti può dire «non solo non li voglio, ma non mi importa nulla di loro» senza entrare in contraddizione con se stesso, con la sua umanità, con la sua capacità di empatia. La nicchia culturale che ci ospita non potrà proteggerci ancora a lungo.
Nicchia, empatia, frontiere interne, trasformazione antropologica sono termini che ricavo da un bel libro uscito da Einaudi, Nuovi disagi nella civiltà (pagine 202, € 19,50), curato da Francesca Borrelli in dialogo con due psicoanalisti, Francesco Napolitano e Massimo Recalcati, e un filosofo, Massimo De Carolis. Senza la pretesa di riassumere un intreccio di voci molto composito, ne traggo qualche spunto per il dibattito attuale.
Inevitabile è per l’animale umano vivere in nicchie artificialmente costruite che svolgono la funzione di quello che per le altre specie è il loro ambiente. L’uomo non dispone di un ambiente prestabilito, è povero di istinti che guidino automaticamente la sua condotta (autunno: vola a sud), ed è ricco invece di pulsioni plastiche e indeterminate. Incapace di distinguere a priori tra quanto nel mondo esterno è segnale (pertinente alla sopravvivenza) e rumore (ciò che non lo è), è strutturalmente aperto alla contingenza illimitata del cosmo. Sia la creazione di nicchie sia il continuo trascenderle fanno parte della sua dotazione di specie. Naturale gli è altrettanto tracciare confini e oltrepassarli. Ciò che lo definisce è il suo essere indefinito, l’impossibilità di dire «noi» una volta per sempre. L’umanità si coniuga al futuro, e non per afflato avventuroso o virtuoso, ma per ragioni biologiche in cui ne va della sua sopravvivenza. Suo destino è il progetto, e universale è il problema di quanto aprire e chiudere ogni volta le frontiere psichiche, culturali e istituzionali. Un problema non drammatico per epoche stabili (ma sono mai esistite?) e particolarmente angoscioso per quelle in cui le nicchie esibiscono la loro impossibilità a durare in eterno.
La nostra è tra queste. Se il mercato è globale, anche le migrazioni sono un tutto integrato, che non prevede la possibilità di isole o fortezze più o meno felici. I capitali viaggiano liberi, uomini e donne vogliono fare lo stesso: questione di fatto e non di diritto. Prima ne prendiamo atto e meglio è. A quale bussola rivolgerci allora, che non sia la paura o la commozione post festum?
Le neuroscienze spiegano che gli umani condividono con le scimmie superiori un apparato cerebrale dotato di neuroni cosiddetti specchio, che fondano la possibilità dell’empatia, del sentire ciò che l’altro sente incorporando i suoi stati mentali (gioia, dolore) attraverso il coinvolgimento di aree del cervello che servirebbero a mettere in moto le nostre reazioni qualora ci trovassimo nella sua situazione. Ma la mera empatia è insufficiente sia a riparare le nicchie sia a fabbricarne di nuove — altrimenti lo saprebbero fare anche le scimmie. A differenza di loro, l’uomo dispone di uno strumento che ha come sua prima prestazione, al contrario di quanto si potrebbe pensare, di sospendere l’empatia invece che di rafforzarla: il linguaggio verbale, che possiede la virtù di distaccarsi dalla contingenza immediata attraverso una serie di dispositivi, il più importante dei quali, ha mostrato Paolo Virno nel suo Saggio sulla negazione (Bollati Boringhieri, pagine 203, € 16), è la parola «no». Un nazista ha sempre la possibilità di sentire il dolore che infligge a un ebreo (osservandone la mimica, sentendone il pianto), ma anche di accantonarla dicendo: non è un uomo, non è uno di noi. Il linguaggio dissolve il «noi» originario. Non ci cibiamo forse di animali? Ma prestazione specifica del linguaggio è anche quella di ricostituire una sfera pubblica che nega la negazione, include, negozia, ridefinisce di continuo lo spazio del «noi», in modo non sempre pacifico e senza soluzioni predeterminate.
Linguaggio e politica, diceva Aristotele, sono il proprio dell’uomo. Anche altre specie vivono associate, anche loro sono dotate di voce. Con essa, però, sono in grado solo di esprimere piacere o dolore, non di deliberare insieme sul giusto e sull’ingiusto. Ed è proprio questo che ci manca, quando contempliamo le tragedie di coloro che chiedono accesso al nostro spazio politico: non la compassione, ma la capacità di includerli nel recinto della deliberazione. Non ci sarà soluzione fino a quando da vittime non li riconosceremo come soggetti (dotati di desideri e non solo bisogni), decidendo e non piangendo con loro. Che a ciò fungano ancora le nicchie in cui a tutt’oggi viviamo — stati nazione, accordi di Schengen —, cioè il «noi» in cui ci riconosciamo, ecco il punto in sospeso.
Un problema complesso. Contrariamente a quanto si dice, i problemi complessi chiamano spesso soluzioni drastiche, e il Novecento ne è testimone. Il razzismo di stato fu una, un’altra l’internazionalismo proletario presto smentito da regimi che non permettevano ai loro cittadini di lasciare il Paese. E diciamoci la verità: funzionavano, sul piano sia logico che pratico. Se non funzionano oggi è perché con il «noi» che implicavano non vogliamo avere più nulla a che fare, il che è un bene. Tutto da reinventare, insomma, ma non del tutto senza bussola: non è la morale, è la specie che lo chiede, e lo rende possibile. Solo così la politica può tornare a essere un’etica, nel senso originario del termine: non la ricerca del bene e del male, ma di cosa sia razionalmente desiderabile per una «buona» vita in comune.

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