giovedì 23 luglio 2015

PSICOLOGIA E SOCIETA'. R. RONCHI, Non frutto di geni bensì del desiderio: l’ultimo Recalcati, IL MANIFESTO, 19 luglio 2015

Con il suo ultimo libro, Le mani della madre Desi­de­rio, fan­ta­smi ed ere­dità del materno (Fel­tri­nelli pp. 90, euro 16,00), Mas­simo Recal­cati risponde a una domanda che, come rac­conta lui stesso, gli è stata sovente rivolta in occa­sione dei tanti suoi inter­venti pub­blici dedi­cati al tema. La que­stione, come è noto, è quella della pro­gres­siva «eva­po­ra­zione del padre» nell’epoca segnata dal domi­nio incon­di­zio­nato del «discorso del capi­ta­li­sta». Ine­vi­ta­bile, la domanda non poteva che riguar­dare il ruolo e la fun­zione della madre. Se del padre resta infatti poco, quando la com­pul­sione al godi­mento illi­mi­tato prende il posto della Legge, paro­dian­dola e cor­rom­pen­dola, cosa resta, nel nostro tempo, della madre?
Il pae­sag­gio materno descritto dal cli­nico Recal­cati è infatti per lo più desolante.


L’immagine patriar­cale della madre votata al sacri­fi­cio e alla rinun­cia incon­di­zio­nata, imma­gine cara alla cul­tura cat­to­lica, ne risulta scossa. Il suo tra­monto segna l’ascesa di madri-coccodrillo che divo­rano il figlio sof­fo­can­dolo con un eccesso di cura, un eccesso che è solo il tra­ve­sti­mento del godi­mento per­verso e ince­stuoso; pro­li­fe­rano madri nar­ci­si­sti­che, gene­rate dal ’68 e, soprat­tutto dal ’77 anti­e­di­pico, che alla rap­pre­sen­ta­zione patriar­cale della mater­nità hanno rea­gito con un pro­gram­ma­tico disin­ve­sti­mento libi­dico nei con­fronti dei figli, vis­suti come osta­coli alla loro rea­liz­za­zione; e ci sono poi le madri peren­ne­mente in fuga dalla mater­nità e le madri-Medee che radi­ca­liz­zano que­sta fuga fino alla nega­zione vio­lenta del figlio in nome dell’assolutezza del pro­prio desi­de­rio femminile.
Anche il desi­de­rio iper­mo­derno di una mater­nità otte­nuta fuori tempo mas­simo o coa­diu­vata tec­no­lo­gi­ca­mente non ne esce affatto bene. Recal­cati mette in luce quanto c’è di oscu­ra­mente «pro­prie­ta­rio» nel «volere avere un figlio» a tutti i costi, quasi che il tempo, l’attesa e, finan­che la fru­stra­zione, non fos­sero gli ele­menti strut­tu­ranti il desi­de­rio materno.
Eppure, que­sto libro così duro con la ver­sione iper­mo­derna della madre (e per niente tenero con la sua ver­sione patriar­cale) è anche un ten­ta­tivo di ren­dere giu­sti­zia alle madri. Il cli­nico Recal­cati cede allora la parola al filo­sofo: alla feno­me­no­lo­gia della madre iper­mo­derna suben­tra una meta­fi­sica della mater­nità: pro­prio que­stioni di meta­fi­sica sono intrin­se­che, infatti, alla defi­ni­zione di «una» madre. Non della madre.
La madre è infatti il fan­ta­sma patriar­cale che ha osses­sio­nato un tempo ormai for­tu­na­ta­mente tra­mon­tato, quando si trat­tava di esor­ciz­zare il desi­de­rio fem­mi­nile in quanto ha di irri­du­ci­bile all’ordine fal­lo­cra­tico. Recal­cati non è affatto indul­gente con que­sta ope­ra­zione, di cui per­ce­pi­sce tutta la violenza.
Una madre è piut­to­sto ciò che resta della madre, dopo che quel fan­ta­sma è stato con­ge­dato e dis­solto dalla cri­tica moderna. Ma il modello di que­sta madre resi­duale è molto antico. Una madre è Maria, la madre di Gesù, che in ogni momento della sua esi­stenza, dall’annunciazione alla veglia ai piedi della Croce, espone per sim­boli poten­tis­simi ciò che ogni mater­nità è: il mistero di una tra­scen­denza asso­luta che si coniuga in modo para­dos­sale con una imma­nenza altret­tanto assoluta.
Più che Lacan, è Lévi­nas a for­nire il filo rosso per l’analisi che Recal­cati pro­pone della mater­nità. In Tota­lità e infi­nito (del 1961), Emma­nuel Lévi­nas aveva infatti colto nella mater­nità, che con­trap­po­neva, un po’ mora­li­sti­ca­mente, alla fri­vo­lezza dell’erotico, il farsi carne di una tra­scen­denza senza ritorno.
Tra­scen­denza signi­fica acco­glienza den­tro di sé di una alte­rità inas­si­mi­la­bile: signi­fica donare quello che non si pos­siede e pos­se­dere quello che eccede la nostra capa­cità di sopportare.
Ora, il desi­de­rio di una madre, quando non è gua­stato dalle pato­lo­gie iper­mo­derne, è – secondo Recal­cati – il desi­de­rio di un altro per sem­pre altro, il desi­de­rio del figlio, appunto. Vale a dire di un essere che si dà solo nell’orizzonte della sua per­dita. Il figlio, infatti per defi­ni­zione, cre­sce, si allon­tana, lascia la casa dei geni­tori. Il figlio desi­de­rato è la pre­senza di un’assenza. Una madre «sana» lo sa. Sa che la man­canza è l’aroma e la ragione del suo desi­de­rio. Lo sapeva Maria che della mater­nità è l’icona. Non a caso, un grande tema ico­no­gra­fico della pit­tura occi­den­tale è stato la raf­fi­gu­ra­zione di que­sto sapere incon­scio nel volto della Madonna che tiene tra le brac­cia il suo bam­bi­nello. Un com­pito gra­vo­sis­simo per il pit­tore devoto: il volto della Madre di Gesù doveva infatti essere asso­lu­ta­mente sereno e al tempo stesso velato da una malin­co­nia che non doveva con­trad­dire la sua sere­nità di madre, sem­mai iden­ti­fi­carsi con essa (!)
Il desi­de­rio si fa pro­pria­mente umano, scrive Recal­cati, nascendo nella distanza e nella distanza pre­ser­van­dosi. Ogni atten­tato por­tato alla man­canza, ogni ten­ta­tivo di riem­pirla con oggetti fetic­cio (anche il figlio può diven­tarlo), è una minac­cia al desi­de­rio stesso, una sua per­versa rinaturalizzazione.
Per Recal­cati la mater­nità non è un fatto della natura. Di essa ani­mali e piante nulla sanno. Nella natura c’è ripro­du­zione, c’è tra­smis­sione di geni. Il senso della mater­nità umana è invece sovran­na­tu­rale o meta­fi­sico. Per­tiene all’ordine sim­bo­lico e al piano del lin­guag­gio. Per que­sto Recal­cati, nelle pagine forse più intense del suo sag­gio, lascia tra­pe­lare l’idea che la mater­nità, in quanto fac­cenda squi­si­ta­mente umana e spi­ri­tuale, sia sem­pre in ultima ana­lisi un’adozione, che con­si­ste in un passo fuori dalla neces­sità della natura e si risolve in una ele­zione – in un desi­de­rio –– che si fa (almeno nella stra­grande mag­gio­ranza dei casi) con i mezzi della ripro­du­zione natu­rale («il reale del sesso») ma non vi si esaurisce.
Ed è pro­prio su que­sto punto che si regi­stra la mas­sima distanza tra l’ipotesi iper­cri­stiana avan­zata da Recal­cati in que­sto libro e la bio­e­tica cat­to­lica. Per il bio­e­ti­ci­sta cat­to­lico, la vita che andrebbe difesa a priori da qual­siasi inter­fe­renza umana, si iden­ti­fica con il prin­ci­pio vitale stesso. Per lui la mater­nità è sacra per­ché coin­cide con la ripro­du­zione ses­suata senza resi­dui di sorta. Per quanto que­sto possa suo­nare strano, la meta­fi­sica cat­to­lica della vita è una meta­fi­sica sfre­na­ta­mente mate­ria­li­sta. Un grumo di cel­lule è la vita, la fun­zione ripro­dut­tiva è la madre. Di con­tro una madre, per Recal­cati è feno­meno essen­zial­mente spi­ri­tuale. Anzi, essa è l’ambito in cui lo spi­rito si genera dalla natura: tra­scen­denza nell’immanenza. La domanda che si dovrebbe porre a Recal­cati – e che, forse, le donne per prime dovreb­bero por­gli – riguarda allora que­sta alter­na­tiva: spi­ri­tua­li­smo giudaico-cristiano / mate­ria­li­smo cattolico.
Ciò che resta della madre, nell’epoca del «discorso del capi­ta­li­sta», si esau­ri­sce in que­sto dilemma? Non c’è per la madre, per la donna, per il godi­mento fem­mi­nile, un’altra inter­pre­ta­zione pos­si­bile, che sia imma­nente e mate­ria­li­stica, senza essere sacrale e ideologica?

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