martedì 26 luglio 2016

SOCIOLOGIA DEL TERRORE. I. DIAMANTI, La banalità del terrore, LA REPUBBLICA, 25 luglio 2016

Viviamo tempi feroci. Segnati dal sangue. Scanditi da eventi drammatici, che si susseguono. Senza soluzione di continuità. Ogni giorno, ogni volta che apriamo il sito di un quotidiano online, oppure guardiamo i notiziari in TV, cerchiamo subito la notizia del nuovo, ennesimo massacro. E, purtroppo la nostra attesa non viene mai delusa. Negli ultimi giorni: almeno 20 morti a Bagdad, vittime di un uomo che si è fatto esplodere presso un centro commerciale. Mentre a Kabul, in un attentato compiuto durante un grande corteo, sono morte 80 persone - e più di duecento sono rimaste ferite. 



Da qualche giorno, peraltro, questi massacri lontani ci appaiono meno lontani. Perché, si sa, quel che avviene laggiù, nell'Oriente medio ed estremo, ci sorprende e ci spaventa di meno. In fondo, è lontano dagli occhi, anche se i media annullano tempi e distanze. Ma, soprattutto, laggiù ci sembra - più - normale. In fondo, pensiamo, nell'Oriente medio ed estremo, guerre, attentati, massacri: sono sempre avvenuti. Ma oggi questi avvenimenti non avvengono solo laggiù. Oltre i confini del - nostro - mondo. Capitano anche qui, vicino a noi. Nel "nostro" mondo. Da qualche tempo, con frequenza, con crescente regolarità. Dunque: regolarmente. Nei giorni scorsi: in Germania, a Monaco, un ragazzo di 18 anni nato e cresciuto in Baviera, ma di origine iraniana, ha ucciso, a colpi di pistola, dieci persone e ne ha ferite 27, alcune in modo molto grave. Perlopiù giovani e giovanissimi. Anche perché aveva cercato i suoi bersagli nell'area, affollata, fra un ristorante McDonald's e un centro commerciale a nord della città. Pochi giorni prima, in un treno, ancora in Baviera, un ragazzo afgano aveva ferito quattro persone a colpi di accetta. Ma la scena consueta e, a noi prossima, di queste storie di ordinaria e sanguinaria violenza è la Francia. A partire dall'8 gennaio 2015, con l'irruzione di alcuni giovani armati nella sede di Charlie Hebdo. Dove morirono 12 persone. Autori, redattori.

Due giorni dopo, sempre a Parigi, in un market kosher, altre 4 vittime. Poi, il 13 novembre dello stesso anno, in alcuni attacchi suicidi coordinati - allo Stadio, nella sala concerti del Bataclan e nelle strade intorno a Place de la Republique - vennero massacrate altre 130 persone. Da allora gli attentati non sono mai cessati. Come le vittime. Nella vicina Bruxelles, base di partenza di parte degli attentatori e delle armi diretti a Parigi. Dove lo scorso marzo, fra l'aeroporto e una stazione della metro, vi sono state oltre 30 vittime

Di recente, infine, gli attacchi sono ripresi. Ancora in Francia. In occasione degli europei, quando, nella periferia parigina, Larossi Abballa ha assassinato due poliziotti, marito e moglie, a colpi di coltello. Nei giorni scorsi, però, l'azione omicida si è intensificata. A Nizza. Dove il 14 luglio, durante i festeggiamenti nell'anniversario della presa della Bastiglia, lungo la Promenade des Anglais, Mohamed Lahouaiej-Bouhlel, alla guida di un camion, ha provocato la morte di 84 persone e il ferimento di altre centinaia.

Propongo questa cronaca funebre e dolorosa, nonostante riprenda fatti e avvenimenti, purtroppo, noti. Ma serve, anzitutto, a me. Per tener viva la memoria della morte (mi scuso del gioco di parole un po' macabro) che oggi scandisce le nostre giornate. E compone le immagini della nostra "vita" quotidiana. Che non sa più prescindere da questa violenza.

L'Osservatorio Europeo sulla (In)Sicurezza, di Demos, Oss. Pavia e Fondazione Unipolis, nell'indagine dello scorso febbraio, dunque, prima della recente, violenta ondata di eventi sanguinosi, individuava la prima causa delle nostre inquietudini nelle paure globali. Malattie, fattori climatici e ambientali. Ma soprattutto il terrorismo. La preoccupazione sollevata dagli atti terroristici, infatti, coinvolgeva quasi il 44% degli italiani. Il livello più elevato degli ultimi anni. E quasi 15 punti in più rispetto al 2010. Rispetto allo scorso febbraio, però, penso che la misura di questo sentimento sia cresciuta ancora. Sensibilmente.

Tanta insicurezza, alimentata da tanti avvenimenti drammatici, che si ripetono sempre più frequenti, rischia di erodere, fin quasi a dissolvere, il senso drammatico di quel che sta capitando. Di routinizzare l'orrore e il terrore. D'altronde, il dibattito sui nostri media riflette la nostra tentazione di "normalizzare" questi eventi drammatici. Di dar loro una spiegazione che ci permetta di "com-prenderli". Di assecondare oppure contraddire le interpretazioni correnti. Le chiavi di lettura privilegiate. Che si tratti, dovunque, di attentati guidati dall'IS. Lo Stato Islamico, senza territorio, alla ricerca di un territorio. Che, per questo, può agire dovunque, in ogni territorio. Fino a casa nostra. Oppure, al contrario, che l'IS non c'entri. E divenga un alibi. Lo sfondo ideologico per l'azione di un terrorismo-fai-da-te. Esercitato da piccoli uomini perduti nelle periferie della nostra società, in cerca di un momento e di un luogo che dia loro centralità. Terroristi organizzati oppure improvvisati. Tutti islamici - radicali o radicalizzati. Nativi o convertiti. Oppure no. Islamici e terroristi per caso. Giovani e meno giovani. Disadattati. In cerca di adattamento, protagonismo, identità.

Mi rendo conto di scrivere e dire cose banali. Ma la "banalità del male", come ha insegnato Hannah Harendt, ricostruendo una vicenda radicata nelle tenebre della nostra storia recente, incombe sempre. Su di noi. Che seguiamo i notiziari sui media - tradizionali e nuovi. E ci chiediamo, ogni volta, cosa sarà successo di nuovo. Di tragico. Quale attentato e dove. Lontano o dietro casa nostra. Con quante vittime. E quali protagonisti. Musulmani oppure no. Islamici oppure no. Gli attentati e i massacri dati per scontati.
Argomenti riprodotti dai talk, che, per citare Edmondo Berselli, richiedono "shock continui". E ancora: la banalità delle opposte spiegazioni. Parallele. Favoriscono l'abitudine al terrore e alla morte. La narcosi della coscienza.

Non dobbiamo rassegnarci.

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