venerdì 15 luglio 2016

TERRORISMO ITALIANO. INTERVISTA CON M. BARBONE. Liberi non si nasce, si diventa, TANA DEL RE, 3 luglio 2003

Atto primo (e unico). Milano, trattoria dalle parti di Città studi. Al tavolo più lontano dall’entrata stanno seduti una ventina di studenti della facoltà di Fisica, estensori del periodico studentesco “La Tana del Re”. Di fronte a loro, spalle al muro, ci sono il ciellino direttore di Tempi (che da giovane aveva mancato un appuntamento con Walter Tobagi) e il suo amico Marco Barbone (la causa del mancato appuntamento con l’inviato del Corriere della Sera), 45 anni, tipografo ed editore, venticinque anni addietro ragazzo dalla P38 facile, terrore dei fascisti (e dei ciellini), militante di “Rosso”, gruppo di fuoco nato da una costola di Autonomia Operaia di Toni Negri, strumento dell’omicidio Tobagi. Pizza per tutti. Conversazione a tavola. (Estratto dell’intervista a Marco Barbone, “Ideologia Vs Speranza”, a cura di Ivan, Jarden e Cate, pubblicata in “La Tana del Re”, anno IV, numero II, giugno-settembre 2003).

http://www.tempi.it/liberi-non-si-nasce-si-diventa#.V4kypPmLTIU


Ho letto una tesina di un ragazzo che ha intervistato alcuni ex-terroristi. A tutti chiedeva cosa fosse rimasto dei valori dei movimenti degli anni ‘70. E tutti, sostanzialmente, gli hanno risposto: «Niente». Però, se penso ai movimenti pacifisti piuttosto che al cosiddetto “popolo di Seattle”, mi sembra ci siano degli echi di quei movimenti, come l’identificazione della polizia col “nemico” oppure l’affermazione dello Stato internazionalista delle multinazionali che anche nella visione delle Br era un’entità che governava tutti i processi economici e politici. Esiste una relazione tra queste cose?
Non si entra in una organizzazione armata come si diventa colleghi di James Bond nei servizi segreti di Sua Maestà, ma si vive all’interno di un movimento fatto di estremisti di sinistra finché porti la tua critica e il tuo antagonismo alle più estreme conseguenze, cioè quelle di armarsi e di fare lotta armata. Io facevo il collettivo politico studentesco (Cps) del Berchet e, siccome avevo una posizione di responsabilità, ed ero una figura emergente del collettivo, sono stato avvicinato da una persona (che poi purtroppo è morta in un conflitto a fuoco) che non mi disse nulla di particolare, mi invitò ad una serie di riunioni, dove affrontavamo l’analisi dei fatti secondo un altro punto di vista, e facevamo un lavoro politico. Oggi dicono che le Br sono diverse da quelle vecchie, che sono dei pazzi isolati, e questo è un punto di vista, secondo me, fuorviante. Non è così: sono una delle opzioni che ci sono all’interno dell’ideologia comunista, dell’antagonismo radicale. La differenza che c’è tra le Br di adesso e di allora è zero, è solo un dato quantitativo. (…)
Non possiamo pensare che i due terroristi del treno di Arezzo siano dei marziani giunti da chissà quale pianeta, perché la loro biografia non dice questo, dice che erano dell’autonomia, che negli anni ‘80 hanno avuto un arresto, hanno fatto delle rapine, sono entrati in clandestinità. Questo è un classico percorso politico di chi entra nelle Br. Nella storia delle Br uno dei momenti più importanti è stato il licenziamento dei 71 di Mirafiori: hanno individuato 71 sindacalisti estremisti dei Cub della Cgil e la Fiat li ha licenziati. Lì c’è stato un marasma gigante. Di questi 71 una buona percentuale era delle Br, perché le Br non sono nate, insisto, alla sede del Sisde piuttosto che del Kgb, sono nate nella lotta operaia, nel conflitto sociale. “Prima Linea” era fatta da persone che incontravi a Sesto S. Giovanni davanti alla Marelli, il signor Baglioni era il capo della Marelli di Sesto S. Giovanni: erano assolutamente (e, secondo me, sono) all’interno di un tessuto sociale e probabilmente in questo momento conversano seduti a tavola come noi, esprimendo il loro parere sulla guerra, sugli americani e poi prendono uno in disparte e gli dicono: “facciamo qualcosa di più deciso…”. è così che funziona, non gli chiedono se è addestrato nelle arti marziali.
Ma non sembrano un po’ gli ultimi giapponesi? Una generazione totalmente scollegata da quella che è la realtà intorno a loro.
Secondo me sì. Alla base di tutto questo c’è un discorso di preponderanza dell’ideologia rispetto alla realtà, perché tu non guardi più la realtà per quello che è ma guardi alla realtà secondo una visione ideologica che diventa violenta. Prendi, per esempio, i cosiddetti “Disobbedienti”, possiamo condannare le loro azioni, ma proviamo a metterci nel loro ambiente: sono la deriva violenta dell’azione politica sindacale. Questo perché Berlusconi, per loro, non è più il presidente del Consiglio eletto con voto democratico, ma è un golpista che se mette in Rai i suoi uomini, attenta alla libertà.
Cos’è rimasto degli impulsi di libertà?
Ho visto una trasmissione su Rai2 nella quale veniva intervistato Gaetano Pecorella. Pecorella, attualmente, oltre ad essere l’avvocato di Berlusconi, è il presidente della commissione giustizia della Camera, di Forza Italia, schieratissimo, attaccato come “l’avvocato del potere”. Pecorella era un avvocato del “Soccorso Rosso”. Il “Soccorso Rosso” era un’organizzazione di estrema sinistra contigua all’estremismo armato. Si chiamava “Soccorso Rosso” perché quelli che erano in galera non erano i venditori di frutta del mercato, erano gli estremisti di sinistra che facevano le rapine, facevano gli attentati, andavano in galera e loro si occupavano di queste persone. Gli chiedono se lui avesse abbandonato proprio tutto di quella parte della sua storia e lui risponde: «Io non ho abbandonato assolutamente niente, come istanze di libertà, di lotta all’oppressione. Sono gli altri che sono diventati conservatori». Questo è giustissimo perché il problema dell’estrema sinistra è che sono diventati omologhi e conservatori. Sono diventati tutti esponenti del potere.
Riguardo alla sinistra, nel caso del sequestro Moro, il Pci ha assunto una posizione di fermezza contro l’ipotesi di una trattativa con i sequestratori. Ho visto, negli anni Settanta come adesso, una certa difficoltà della sinistra istituzionale a dialogare con questo mondo dei movimenti allora come oggi. Cosa ne pensi? 
La storia è complicata, il Pci si è ovviamente opposto al sequestro Moro per due motivi: perché evidentemente non è che il Pci condividesse la presa del potere con le armi e perché l’uso politico che è stato fatto del sequestro Moro è stato contro l’ingresso del Pci al governo. Attenzione, l’uso politico: non è che chi organizzava il sequestro Moro pensasse di potere impedire l’ennesimo governo Andreotti o il compromesso storico. Ho parlato con alcuni di quelli che hanno ideato, progettato ed eseguito il sequestro Moro, la loro realtà era abbastanza lontana dal sistema dei partiti. Infatti, quando hanno sequestrato Moro, non sapevano cosa chiedergli perché loro avevano una mentalità totalmente ideologica (la Nato, i sevizi segreti, il determinismo) e lui invece era la personificazione della complessità del tessuto sociale, per cui non esiste lo Stato imperialista delle multinazionali, ma ci sono una serie di rapporti di potere, di strutture, di compromessi, della realtà normale di tutti i giorni di cui loro non capivano assolutamente niente. Tant’è che l’interrogatorio di Moro è stato gestito da Moro stesso: era lui che imponeva gli argomenti a quelli che lo interrogavano. Vedere in tutto quello che è accaduto una parte dei complotti è falso. Questi eventi succedevano come realtà di forme interne ad una logica e poi venivano utilizzati dal sistema dei partiti per le loro lotte di potere, per le loro scelte, i loro scontri, i loro antagonismi. Questo è importante perché queste persone non sono organiche ad una struttura di potere, noi non eravamo organici ad una struttura di potere, non eravamo pagati da chissà quale loggia massonica. Eravamo degli attori politici.
Qual è l’obiettivo finale di chi abbraccia la lotta armata? 
L’obiettivo finale non esiste, non hanno speranza, è un’utopia, e l’utopia è la radice della violenza. Non puoi fare un discorso razionale su un’utopia ideologica (…). è una tragedia che va fermata, per fermarla c’è un solo modo: devi metterli in galera, dopo discuti. Prima li fermi e dopo si discute. Adesso gira per Roma un certo signor Seghetti che era il capo della colonna romana delle Br, aveva un centinaio di irregolari sotto di lui, ha fatto fuori una ventina di persone personalmente. Finché non è stato preso e messo in qualche carcere speciale, non ci potevi discutere, perché lui era in una posizione assolutamente terribile.
Tu sei la testimonianza che l’ideologia non è l’ultima parola, che una possibilità di uscita esiste.
Non per tutti l’appartenenza politica è cambiata: Seghetti è rimasto con le posizioni di vent’anni fa. Dopo l’arresto a me è accaduto qualcosa: incontrare delle persone che sono quella che adesso è mia moglie, ed alcuni amici, tra cui Amicone. Se non ci fosse stato l’evento drammatico della carcerazione magari non saremmo qui a parlare. Sono stati eventi straordinari all’interno di una ordinaria amicizia, però tutto questo è stato determinato perché nel frattempo mi era stata data oggettivamente la possibilità di tirarmene fuori. Voglio dire però, che carcere non implica conversione. Ho avuto degli amici con cui ho condiviso la militanza, siamo stati arrestati nello stesso periodo, abbiamo fatto del carcere insieme e ora loro sono su posizioni totalmente diverse. L’umana comprensione e anche la compagnia che, a chi capita, si può fare a persone che scelgono di fare determinati percorsi, non deve distogliere da un giudizio anche duro. (…)
Come può l’idea del ’68, gli ideali di uguaglianza e libertà, che di per sé non sono sbagliati, portare ad una degenerazione per cui qualunque gesto fatto in nome di un’idea può essere legittimo?
Il punto è che gli ideali sono sbagliati. Il ‘68 sfascia tutto, sfascia l’autorità, l’istituzione, la famiglia. In questo senso io contesto che gli ideali del ‘68 siano ideali giusti. Non è così: prendiamo la contestazione del principio di autorità. Quello che cerco di fare adesso con i miei figli è spiegar loro che il fatto che noi genitori li riprendiamo, non è un’oppressione verso un’istanza di libertà ma è un’esperienza naturale originaria che educa l’uomo. Questo non è esattamente come dirlo, è un lavoro faticoso. Il concetto che mi ha più affascinato nell’incontrare il movimento (di Comunione e Liberazione, ndr) è il concetto di lavoro. Io avevo una mentalità per cui ciò che non andava era da sfasciare: non mi andava il potere politico, allora andava fatta la rivoluzione. Avevo una mentalità utopista, idealista. Invece ho imparato il concetto di lavoro ed educazione per il quale tu non ti fermi all’impulsività, all’istintività, alla reazione emotiva, ma decidi che quella è la tua vita e la felicità è data dal fatto di affrontare con impegno anche i giorni meno allegri e spensierati, cioè di fare un lavoro su te stesso, sull’educazione, un lavoro che magari non vedi tanto riconosciuto. Io vi auguro di diventare tutti Presidenti del Consiglio ma magari vi capiterà la cosa molto più banale (ma molto più vera) di un lavoro, di un’esistenza in cui la vera scommessa sarà l’educazione. L’educazione in senso transitivo: non l’affermazione di un principio di autorità, ma l’evoluzione di un’esperienza reale e storica, un approfondimento continuo di quello che c’è. Questo punto di vista mi ha molto colpito e lì ho capito che c’è proprio la possibilità di un’esistenza diversa perché altrimenti l’utopia ti rende disponibile a qualsiasi cosa.
Io vengo da una famiglia conservatrice e le Br sono sempre state viste ed etichettate come un fenomeno di delinquenza e basta. Però c’è un punto che non sento estraneo a me: è vero che noi abbiamo il desiderio di incidere sulla storia, di portare avanti nella vita un progetto che sia all’altezza dell’infinito che abbiamo dentro e mi sembra che in questo senso la violenza sia qualcosa che a volte scoppia dentro e che non riesci a fermare nel caso in cui la realtà non corrisponde a quello che vuoi.
Questa esigenza è l’esigenza di qualunque persona umana che abbia un desiderio sulla propria esistenza che, se non è dentro un incontro, non trova un esito favorevole. La vera rivoluzione (perché alle volte nella mia vita mi domando se quello che cercavo era una rivoluzione o un’alienazione sociale) è il fatto di fare della propria esistenza un evento rivoluzionario cioè che nel banale episodio della tua vita esploda qualcosa di particolarmente significativo per il tuo destino. Ad esempio, mi colpisce molto l’alienazione di quelle donne che vivono la propria maternità come un isolamento sociale, come una chiusura, mentre Giussani dice che, nel pulire il pannolino del figlio, c’è una manifestazione del destino, dell’Avvenimento, altrettanto grande quanto il grande avvenimento epocale. E vi giuro che è così. Io ho fatto degli atti che volevano essere epocali e che sono state invece delle stronzate, nella migliore delle ipotesi. L’altro giorno mio figlio mi ha chiesto perché si faceva la guerra e io gli ho risposto male perché ero stanco. Poi, però, sono stato male due giorni, perché ho tradito la fiducia e l’aspettativa di una persona nella mia vita. Se in quel momento avessi avuto più coscienza di me stesso, del mio destino, anche non sapendo spiegare tutte le complicazioni a un ragazzino… è lì che scaturisce il destino della tua vita: non nell’evento epocale o presunto tale. Io ho passato gran parte della mia vita in una situazione abbastanza particolare e la confondevo come una situazione privilegiata di possibilità di esprimere la mia persona; la verità è che esprimi la tua persona nella vita quotidiana: è quella la vera rivoluzione. è un compito storico eccezionale, grazie al movimento che ci educa a cogliere, nel banale quotidiano, il miracolo.


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