Atif Jalal Ahmad, ricercatore di origine bengalese del Woodrow Wilson Center, think tank di politica internazionale all’Università Rutgers, Usa, dove si è laureato a pieni voti in Scienze politiche, ha scritto un saggio dal titolo profetico: «Isis infetterà il Bangladesh». Allora, è davvero successo?
«La rivendicazione e le immagini orribili della strage confermano che l’azione è stata sicuramente inspirata dal “brand” Isis. C’è però un dettaglio che fa riflettere sull’effettiva paternità dell’attentato. Durante i negoziati con la polizia, il commando ha fatto due richieste: una via di fuga e la liberazione del leader di Jamaat ul-Mujahideen Bangladesh (Jmb, un gruppo terroristico molto attivo nel Paese fino al 2005, ndr) arrestato proprio venerdì, nelle prime ore del mattino, assieme ad una cinquantina di ex combattenti.
Quindi potrebbero essere membri di Jmb che usano la sigla Isis?
«Sì, le incursioni di Isis in Bangladesh sono probabilmente da associare più ad un forte richiamo del loro “marchio” che ad una presenza operativa formale ma è pur vero che Isis fa molta propaganda ed è sicuramente una fonte di ispirazione. Da questo punto di vista ha raggiunto il Bangladesh. Nei Paesi vicini ci sarebbero già campi di addestramento del Califfato. Il governo deve cambiare strategia, qualcosa deve essere fatto per contenere la loro avanzata».
Cosa?
«E’ fondamentale aumentare la collaborazione con gli Stati Uniti e con altri Paesi che hanno esperienza e risorse nel campo dell’anti-terrorismo, come il Giappone. Il governo bengalese ha di recente operato un giro di vite, arrestando circa 15.000 persone. Ma non è abbastanza. Se devo essere onesto ritengo che il Bangladesh non ha i mezzi per affrontare una simile minaccia. Abbiamo la polizia, possiamo operare arresti di routine. Ma la lotta all’anti-terrorismo è un’altra cosa. Il livello di preparazione necessaria non è alla nostra portata. E non dobbiamo dimenticare che il Bangladesh è un Paese perlopiù rurale, con distretti remoti, che la polizia non riesce a controllare».
L’instabilità politica può essere un fattore scatenante?
«Le divisioni politiche attraggono gli estremisti. Isis e gli altri gruppi estremisti si infiltrano principalmente nei Paesi dove ci sono governi instabili o inesistenti. Pensiamo allo Yemen o alla Libia, ad esempio. Sta avvenendo anche in Bangladesh, ad un livello mai visto prima. Ed è triste vedere come all’indomani dell’attentato l’opposizione si sia subito scagliata contro il governo accusandolo di non aver fatto un buon lavoro. Il problema è più vasto».
In che modo il “marchio” Isis seduce i terroristi locali?
«C’è una sorta di nefasta competizione nel mondo, malata e disgustosa: gli attentatori, anche isolati, vogliono dimostrare di essere feroci e crudeli come vuole Isis. Lo si è visto a Parigi e ad Orlando, a Beirut ed Istanbul. E ora a Dacca. Fa parte di uno scenario ben più vasto con cui si vuole dimostrare che i governi dei Paesi d’origine delle vittime non sono in grado di proteggere i loro connazionali all’estero. La propaganda di Isis vuole far passare il messaggio che invece dove il Califfo ha potere la sicurezza e la protezione sono assicurati».
E’ un messaggio che potrebbe far presa anche sulla popolazione del Bangladesh?
«I bengalesi sono una popolazione pacifica. A differenza di altri Paesi, oggi come in passato, qui nessuno gioisce dopo un attentato. La gente prega ma non è estremista. Ha altre preoccupazioni: l’andamento dell’economia o se saranno in grado di assicurare ai propri figli un futuro migliore. Non credo che il carattere dei bengalesi cambierà. Però la popolazione è spaventata, quello sì. I bengalesi oggi hanno paura».
Però in Siria ci sono combattenti bengalesi...
« Le cifre sono sicuramente inferiori a quelle dei foreign fighters che partono dalla Francia. E la maggior parte dei bengalesi in Siria e in Iraq provengono dalla comunità di emigrati nel Regno Unito, persone che hanno vissuto in ambienti completamente diversi dalla madre patria».
Qual è in questo contesto la posizione di Jamaat-e-Islaami (Ji) il partito islamico messo fuori legge dalla premier Sheikh Hasina?
«E’ in una posizione difficile. Attraverso la rivista Dabiq, Isis li ha accusati apertamente per aver accettato delle donne nei posti di comando e ha minacciato una “punizione”. La leadership di Jamaat-e-Islaami non ha alcun interesse ad allearsi con Isis. Piuttosto combatte per la sua sopravvivenza politica, per tornare ad essere un partito che possa condizionare in qualche modo le politiche di governo. Non sono le persone migliori di questo mondo, ma non credo abbia per loro alcun senso accordarsi in questo momento con i terroristi».
E il ruolo di Al Qaeda in Bangladesh?
«Sicuramente sono presenti. In che misura e con che forza non lo sappiamo. E’ interessante vedere però come la branca locale, Ansarullah Bangla Team, ha finora rivendicato gli attacchi, ad esempio contro i blogger atei, con la propria firma e non quella di al Qaeda. In questo si differenziano da chi usa il “marchio” Isis».
Pensa di tornare un giorno in Bangladesh?
«No, sto per trasferirmi a Washington D.C. per lavorare in una think tank di politica internazionale. Ho intenzione di stabilirmi qui negli Stati Uniti. Credo che tornerò in Bangladesh soltanto come turista. Mi permetta di concludere con un ringraziamento agli Azzurri della nazionale di calcio italiano che hanno giocato con una fascia nera al braccio per commemorare i morti nell’attacco. Apprezzo moltissimo il sostegno che stanno dando anche al mio popolo».
2 luglio 2016 (modifica il 3 luglio 2016 | 00:30)
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