venerdì 28 luglio 2017

CINEMA. ANTONIONI E BERGMAN 10 ANNI DOPO LA LORO MORTE. R. NEPOTI, Dieci anni senza Bergman e Antonioni, maestri lontani ma vicini, LA REPUBBLICA, 28 luglio 2017

La tentazione è forte, congenita nel nostro bisogno di dare un senso forte agli eventi: se due dei più significativi registi del cinema di tutti i tempi se ne sono andati lo stesso giorno di dieci anni fa, il 30 luglio del 2007, vorrà pur dire qualcosa. Quali sotterranee affinità elettive li legavano? In cosa sono simili le loro opere? E’ probabile, però, che questa specie di oroscopo alla rovescia sia un’illusione: altri due grandi del cinema, Orson Welles e Yul Brynner, morirono nella stessa data – il 10 ottobre del 1985 – e tuttavia non avevano niente in comune. Eppure, a ben guardare, non mancano tratti condivisi nei due registi; e anche piuttosto evidenti, al di là delle differenze di nazionalità, educazione, cultura. Quasi coetanei (Michelangelo era del 1912, Ingmar del ’18), entrambi schivi e di carattere incline alla malinconia, ambedue innamorati del genere femminile, ugualmente attenti ai valori della forma e dello stile, quei grandi autori proiettarono tali caratteristiche personali nei rispettivi film; e in un modo così efficace da “fare scuola” generando epigoni ed emuli in abbondanza.




L'introspezione. Sia Antonioni sia Bergman sono maestri del cinema psicologico: in modi diversi tra loro, però, e assolutamente non convenzionali. Del regista svedese basterebbe citare Il posto delle fragole, col percorso interiore dell'anziano professore alla riscoperta della propria vita, i sogni di valenza psicanalitica, il peso della memoria nella definizione di un percorso esistenziale. Bergman è un esploratore della psiche attento e acuto, come accade spesso a chi ha vissuto in prima persona i conflitti psicologici (Ingmar soffrì di crisi depressive ricorrenti e anche gravi), e spesso sembra voler usare la propria arte come palliativo, se non addirittura come terapia. Altrettanto piegato sugli aspetti psicologici dell'esperienza umana, Antonioni è però lontano le mille miglia dal volersi porre come "strizzacervelli". I suoi film misurano la distanza tra le persone e le cose, l’assenza, la difficoltà del desiderio: non nel senso, banale, dell'"incomunicabilità" con cui il suo cinema fu etichettato all’epoca, bensì come tensione e ricerca ansiosa di autenticità in un mondo sempre più enigmatico e straniante.

La centralità dei personaggi femminili. Certo, non stiamo parlando di due grandi ottimisti. Però basta osservare quante volte la parola "amore" ricorra nei titoli dei loro film (Un'estate d'amore, Una vampata d'amore, Una lezione d'amore, Cronaca di un amore, L'amore in città) per costatare l'importanza decisiva che essi attribuivano ai sentimenti. In poche filmografie, come nelle loro, assumono un'importanza primaria i personaggi femminili. Interpretati dalle attrici-feticcio di Bergman, che spesso furono anche le donne della sua vita (Liv Ullmann, Harriet Andersson, Bibi Andersson, Ingrid Thulin), essi smentiscono la logica del cinema "patriarcale", che sullo schermo voleva la donna accessorio e complemento dell’uomo. Focalizzando, anzi, sovente sul rapporto donna-donna, come nelle tre sorelle di Sussurri e grida o nella dialettica madre-figlia di Sinfonia d'autunno. Dell'importanza prevalente dei personaggi femminili è testimonianza tutta la filmografia di Antonioni: dai primi film, La signora senza camelie e Le amiche, alla tetralogia anni ’60 (L'avventura, La notte, L'eclisse, Deserto rosso) con Monica Vitti, allora compagna del regista, fino a Zabriskie Point e al più recente Identificazione di una donna (1982).

Lo stile. Forse ancor più che nelle tematiche o nell'attenzione all'analisi dei sentimenti la vera affinità elettiva tra i due registi va individuata nel comune culto dello stile cinematografico. Entrambi ossessionati dall'immagine, in quanto veicolo comunicativo delle rispettive poetiche, sia Bergman sia Antonioni ci hanno consegnato visioni di definitiva bellezza e potenza espressiva. Pur accordando grande valore alle parole (che creava e rielaborava a lungo come sceneggiatore), Bergman ha impresso alle sue immagini la forza figurativa dei più grandi maestri, offrendo modelli di linguaggio agli altri registi e alle scuole di cinema. Perfezionista della forma (quanta sapienza nel rendere impercettibili i movimenti di macchina all’interno dei suoi piani sequenza…), impareggiabile nel dirigere gli sguardi degli attori, Antonioni non rinunciò mai a sperimentare nuovi linguaggi; anche entusiasmandosi, primo in Italia, per l'introduzione del cinema elettronico, antesignano del digitale.
 

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