domenica 5 aprile 2015

STRATIFICAZIONE SOCIALE. IL CETO MEDIO IN CINA. G. B., Danzare, ma con le dovute regole, IL MANIFESTO, 4 aprile 2015

 5 marzo 2015. Sui mar­cia­piedi, ma anche sotto i ponti e nelle spia­nate dei cen­tri com­mer­ciali. Le città cinesi si riem­piono ogni giorno, verso sera, di per­sone che fanno danze col­let­tive di strada. Sono soprat­tutto donne, anziane e di estra­zione popo­lare.


Quelle che si tro­vano di fronte al grande magaz­zino Raf­fles di Dong­z­hi­men, a Pechino, sono una qua­ran­tina. Hanno scelto di chia­marsi «troupe arti­stica di Nan­guang» e ogni sera can­tano e reci­tano vec­chie can­zoni rosse: la guerra antim­pe­ria­li­sta con­tro il Giap­pone, la fra­tel­lanza tra i popoli che com­pon­gono la Cina e la glo­riosa guida del Par­tito. Il grande magaz­zino le ha addi­rit­tura spon­so­riz­zate per­ché pare che atti­rino la clien­tela.
Ora però il governo ha deciso di «stan­dar­diz­zare» le coreo­gra­fie attorno a dodici can­zoni popo­lari, tra cui il tor­men­tone techno-pop del 2014 Xiao Ping­guo. Si dice che sei­cento istrut­tori cer­ti­fi­cati saranno dis­se­mi­nati per spiazzi e mar­cia­piedi a inse­gnare la coreo­gra­fia cor­retta.
La mente corre ai tempi della rivo­lu­zione cul­tu­rale, quando Jiang Qing, la moglie di Mao, impose le «otto opere modello», sosti­tuendo le vec­chie sto­rie di man­da­rini e con­cu­bine dell’opera di Pechino con edi­fi­canti messe in scena a base di reg­gi­menti di sol­da­tesse rosse; un’estetica che oggi vive una sua rina­scita nel segno del vin­tage. Ma oggi la nuova stan­dar­diz­za­zione non è fatta nel nome della ret­ti­fica ideo­lo­gica, bensì di una ragione molto più pro­saica: si trat­te­rebbe di venire incon­tro alle richie­ste del nuovo ceto medio, figura di rife­ri­mento della lea­der­ship, che non vuole schia­mazzi in strada. Il maoi­smo ha lasciato il posto alle richie­ste dei nimby e quindi biso­gna fare ordine e sco­rag­giare le zie antim­pe­ria­li­ste che ogni sera reci­tano e can­tano la loro gio­ventù rivo­lu­zio­na­ria davanti al cen­tro com­mer­ciale Raf­fles; dal nome dell’imperialista bri­tan­nico che fondò Sin­ga­pore e con­qui­stò mezza Asia.
28 marzo 2015. La sti­li­sta Cheng Ying­fen, ori­gi­na­ria della Regione Auto­noma Uigura dello Xin­jiang, porta in pas­se­rella nella loca­tion artistico-chic della 798 di Pechino una col­le­zione autunno-inverno ispi­rata ai costumi tipici della sua terra. Il sito della Fede­ra­zione delle Donne Cinesi, rac­conta che la mai­son di Cheng — «Stella sulla Via della Seta» — par­te­cipa per la seconda volta alla China Fashion Week con un’estetica che «inte­gra la cul­tura tra­di­zio­nale dell’abbigliamento uiguro con la moda con­tem­po­ra­nea». «La col­le­zione 43° Lati­tu­dine Nord — aggiunge l’articolo – pre­senta motivi orna­men­tali tra­di­zio­nali dello Xin­jiang e uti­lizza come mate­rie prime fibre natu­rali e lana di alta qua­lità pro­dotte in Xin­jiang».
Nel frat­tempo, 4mila chi­lo­me­tri più a ovest un uomo di 38 anni è con­dan­nato a sei anni di reclu­sione da un tri­bu­nale di Kash­gar, Xin­jiang. A sua moglie viene inflitta una pena di due anni. La cop­pia è col­pe­vole di “«reare con­flitti e pro­vo­care guai», riporta il Zhong­guo Qing­nian Bao, quo­ti­diano della gio­ventù (che farà spa­rire la noti­zia il giorno dopo). L’uomo «aveva comin­ciato a farsi cre­scere la barba nel 2010», men­tre la moglie «indos­sava un velo che le nascon­deva il viso, e un burqa», rac­conta il gior­nale. La cop­pia aveva già «rice­vuto diversi avver­ti­menti», scrive ancora il gior­nale citando fun­zio­nari locali.
Nel 2013, il governo cinese ha lan­ciato il «pro­getto bel­lezza», che inco­rag­gia le donne uigure a smet­tere il velo e gli uomini sotto in cinquant’anni a radersi.
Biao­z­hu­n­hua. Stan­dar­diz­za­zione. Se non pro­prio una parola chiave, è un con­cetto utile per com­pren­dere la Cina di Xi Jin­ping, che cerca di dare ordine alla sua cre­scente com­ples­sità interna e di ren­dere i pro­cessi pre­ve­di­bili. Si mira a un’assoluta sta­bi­lità, il segreto per con­ti­nuare la cre­scita paci­fica, soprat­tutto men­tre l’economia dà segni di ral­len­ta­mento.
Il quarto ple­num del comi­tato cen­trale, a fine 2014, era dedi­cato allo Stato di diritto. Nella distin­zione anglo­sas­sone tra rule of law e rule by law, sem­bra pro­prio che la Cina scelga la seconda opzione: il sistema legale come tec­nica di governo. È yifa zhi­guo, cioè «gover­nare il Paese attra­verso la legge». Vuol dire che l’imperatore usa la legge come metodo, non che si pone sotto di essa. Biso­gna creare un pac­chetto di norme – stan­dard, appunto — che ren­dano chiaro cosa si può e non si può fare.
Ed ecco le nostre coreo­gra­fie di strada tol­le­ra­bili a palati e orec­chie bor­ghesi; ecco i nostri abiti uiguri rigo­ro­sa­mente senza velo e i nostri maschi senza barba.
La stan­dar­diz­za­zione del con­sen­tito è una forma di gover­nance della diver­sità. Il sistema, come un corpo bio­lo­gico, acqui­si­sce ciò che lo poten­zia, reprime ciò che è giu­di­cato incom­pa­ti­bile.
È suc­cesso anche in Occi­dente, con la repres­sione dei movi­menti ere­ti­cali e la per­se­cu­zione delle stre­ghe fun­zio­nali all’affermazione di quella società bor­ghese il cui ana­logo cinese è la xiao­kang she­hui — società del benes­sere mode­rato — dove tutti siano ceto medio sod­di­sfatto, urbano o semi-urbano, diviso in clu­ster ter­ri­to­riali facil­mente moni­to­ra­bili.
Nel futuro imma­gi­nato a Pechino, le vec­chie guar­die rosse dive­nute zie anti-imperialiste sono pre­vi­ste solo se dan­zano cor­ret­ta­mente e arric­chi­scono il grande magaz­zino Raf­fles; per velo e barba, non c’è pro­prio posto.

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