giovedì 9 aprile 2015

TEORIA DELLE DECISIONI. NEUROSCIENZE. G. MARTINO, Istinto o ragione? Chi decide davvero per te, LA STAMPA, 8 aprile 2015

Quante decisioni, tra le tante possibili, siamo costretti a prendere ogni giorno? Forse non ne teniamo nemmeno il conto: sono una miriade: da quelle più banali (tè o caffè?) alle più importanti (a che corso di laurea mi iscrivo?). Sappiate che, secondo neurologi e neuroscienziati, molto spesso, quando compiamo una scelta, ci pentiamo o non sappiamo spiegare perché abbiamo preferito comportarci in un certo modo e non in un altro: pensiamo di decidere razionalmente per poi comportarci in modo irrazionale. 



La letteratura e la filosofia - da Shakespeare a Spinoza, da Hume a Kant - avevano già discusso di un conflitto di competenze tra istinto e ragione, ma è a quel corpus conoscitivo che va sotto il nome di «Teoria delle decisioni» che si deve il merito di avere sostanziato scientificamente i concetti di cui parliamo. Teoria che ha preso forma grazie a studi compiuti inizialmente in ambito economico e che sono stati basati per lo più sul confronto tra aspetti puramente normativi (come ci si deve comportare per agire razionalmente) e aspetti comportamentali delle scelte (come nel mondo reale prendiamo le nostre decisioni). Teoria che ci consegna un essere umano in bilico tra ragione e istinto, tra razionalità e automatismi, uno che, quando sceglie in condizioni di rischio, spesso, sbaglia perché fa prevalere la propria convenienza rispetto al bene comune. 

Ebbene, negli ultimi 20 anni abbiamo assistito a una «svolta neuro-etologica» della teoria delle decisioni, non solo concettuale ma anche sperimentale. Cosa ci insegna la svolta? Che ogni organismo deve soddisfare in primis le esigenze per la sua sopravvivenza, quali la capacità di difendersi (combattimento e fuga), di alimentarsi (ricerca del cibo) e di riprodursi, e per soddisfare tali esigenze ha subìto una significativa pressione evolutiva che, nel tempo, ha condizionato lo sviluppo del cervello. Oggi, gli esperimenti resi possibili dalle neurotecnologie ci permettono di osservare dal vivo sia la struttura sia la funzione di zone discrete del cervello. Possiamo così ipotizzare che alcune decisioni - sia in ambito neuroeconomico (per esempio il rischio di scommettere o acquistare) sia sociale (per esempio comportamenti di «evitamento» e non) - non possono essere elaborate senza prendere «in prestito» proprio quei circuiti cerebrali garanti della nostra stessa sopravvivenza: una sorta di cooptazione funzionale e opportunista di strutture cerebrali già presenti, ma destinate ad altre funzioni.  

Se si analizzano i circuiti cerebrali che fanno sì che un animale decida, rischiando, di abbandonare un’area in cui il cibo scarseggia per cercarne un’altra potenzialmente più ricca, si capisce come tali circuiti siano gli stessi che vengono utilizzati da un soggetto che sceglie di perseguire un’opportunità di tipo economico meno certa, quindi più rischiosa, ma potenzialmente più remunerativa. Questo comportamento è iscritto tanto nel cervello dei mammiferi quanto in quello di vermi e moscerini della frutta. La «svolta» conferma che la mente emerge dal cervello, costruendo reti di neuroni che pensano, ma ci dice anche che la quantità di tali reti è finita. 

Ci dice che in condizioni di pericolo il cervello non costruisce nuovi circuiti dedicati, ma ne utilizza di preesistenti, gli stessi resi efficienti dalla pressione ambientale. Alla luce di questa svolta siamo davanti a un cambio di paradigma, che forse metterà in crisi le nostre certezze, ma che certo non limiterà le nostre ambizioni. Se la cattiva notizia è che abbiamo capito che, quando siamo in condizioni rischiose, scegliamo in modo non ottimale, perché guidati soprattutto dalla convenienza, la buona notizia è che la nostra convenienza è limitata, perché guidata da un sistema ergonomico quale è il cervello. 

La selezione naturale ha lavorato su alcuni processi decisionali-chiave, tanto che comportamenti complessi sono spesso la conseguenza di tutto ciò: o lo comprendiamo o rimarremo restii ad accettare il limite della libertà individuale. Scegliere, sapendo di essere limitati nella capacità di scelta, potrebbe infatti farci scegliere meglio e potrebbe far sì che le nostre decisioni - e quanto ne avremmo bisogno in ambito politico - siano più efficaci. 

Qualcuno ha già pensato come sfruttare queste conoscenze: il premier inglese David Cameron è stato il primo, nel 2010, a dare il via a «Mindspace», con il compito di ideare politiche basate sull’economia comportamentale. Nel 2013 Barack Obama ha seguito la stessa strada. Sono progetti che utilizzano il «paternalismo libertario», proposto dall’economista Richard Thaler e dal giurista Cass Sunstein, e che si basano sulla svolta neuroetologica per pianificare interventi pubblici che consentano di fare scelte migliori per sé e la società. E l’Italia? Molti si trincerano dietro la convinzione che sia sbagliato pensare di essere limitati nelle scelte: potrebbe essere l’ennesima scusa per perdere un’occasione di sviluppo, soprattutto culturale, di cui la scienza è parte integrante. 

Nessun commento:

Posta un commento