Quando cominciò a uscire, alla fine degli anni settanta, Il materiale e l’immaginario (a cura di Ceserani e De Federicis, Loescher, Torino 1979-1988), ne parlai subito alla radio (tenevo una rubrica culturale su RAI 3). Non fui l’unico. Ne discussero poi, negli anni successivi, diversi altri studiosi: ricordo, fra gli altri, Giovannetti su Tirature, Fortini sul Corriere della sera, Zinato su Allegoria. Il dibattito culturale, insomma, non si era ancora del tutto estinto. E, d’altra parte, ciò che colpiva, nella operazione di Ceserani e De Federicis, era appunto la dimensione culturale alta, insolita nei manuali di letteratura. I due autori avevano non solo un disegno didattico, ma un progetto culturale nuovo e ambizioso. I manuali non erano ancora diventati un mero prodotto della cucina redazionale degli editori, in cui lo studioso di turno appone la propria firma, come accadrà sempre più spesso negli ultimi dieci-dodici anni, ma potevano essere il banco di prova di un metodo e addirittura, come nel caso in questione, di una nuova ipotesi interpretativa della storia.
L’opera era gigantesca – dieci volumi, migliaia di pagine – e si presentava come un laboratorio e, insieme, come un labirinto, ma un labirinto ordinato e strutturato, una sorta di immenso catalogo e di grande enciclopedia dell’immaginario. Dell’enciclopedia illuministica ha l’ottimismo, la carica innovativa e riformatrice, che rivela ancora una speranza e una fiducia nella scuola. L’ideologia della complessità, con il suo carattere intricato, aperto, pluridisciplinare e pluriprospettico, la percorre dall’inizio alla fine. Era il momento d’oro del postmodernismo ideologico, e il manuale ne condivide le illusioni e gli entusiasmi. Una nuova epoca stava nascendo, si credeva, priva della pesantezza, della unilateralità, dell’unidirezionalismo che
Romano Luperini, Ceserani e la scuola
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avevano caratterizzato lo storicismo e lo strutturalismo (anche se poi le
tecniche semiotiche e retoriche dell’analisi del testo, messe in circolo
dallo strutturalismo, sono qui ampiamente presenti).
Già il titolo e il sottotitolo (Laboratorio di analisi dei testi e di lavoro
critico), da un lato vogliono sottolineare la serietà scientifica
dell’impianto didattico (come mostrano i termini laboratorio, analisi,
lavoro critico: espressione, quest’ultima, che oggi suonerebbe
terrorizzante e sarebbe probabilmente impensabile in un manuale per
le scuole), dall’altro evocano la materialità dei dati storico-economici
(nella introduzione del 1978 non manca il riferimento al marxista
Goldmann) e pongono in risalto la vera novità dell’opera, il concetto di
immaginario, elaborato sulla base dei risultati della più recente
indagine storica e antropologica, e soprattutto della histoire des
mentalités e delle microstorie e, prima, della ricerca delle Annales e forse
anche della nascente tendenza americana dei cultural studies. Ne usciva
sconvolto l’impianto tradizionale dei manuali: si pensi che negli anni
settanta si era affermato quello di Salinari-Ricci e che la storia della
letteratura più diffusa nei licei, dopo l’eclissi del Compendio di Sapegno,
era quella di Petronio: due opere di saldo impianto storicista. Ma non è
solo lo storicismo a essere messo sotto accusa; lo stesso concetto di
letteratura è sostituito da quello, più vasto e generico, di immaginario.
Al posto del percorso rettilineo su base diacronica viene squadernato
davanti a studenti e insegnanti un intrico di percorsi tematici. Viene
accantonato per la prima volta il modello didattico che coniugava
storia della letteratura, storia della identità nazionale e impegno civile
(da De Sanctis a Sapegno, Petronio, Salinari e Muscetta questo era stato
il disegno largamente dominante). Le letterature straniere e la pratica
comparativa, timidamente introdotte da Salinari-Ricci, entrano ora
saldamente all’interno del “manuale di letteratura italiana” dei licei. Si
dissolve infine, grazie ai percorsi tematici, anche un altro caposaldo
della manualistica tradizionale: quello dell’unità dell’autore: i testi dei
diversi scrittori si presentano infatti smembrati e suddivisi a seconda
dei diversi temi da essi praticati o a essi (più o meno arbitrariamente)
assegnati. In casi come quest’ultimo, in cui la teoria strutturalista e
poststrutturalista della “morte del soggetto” è portata alle estreme
Between, vol. III, n. 6 (Novembre/November 2013)
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conseguenze, è evidente il carattere ottimistico e utopico del progetto, che violentemente si scontrava con le esigenze della didattica per la quale è ovviamente assai difficile rinunciare a una qualche presenza dell’autore. Questa è stata certamente una causa (non l’unica, peraltro, come vedremo) della mancata diffusione di massa dell’opera, che ebbe successo fra gli insegnanti più preparati, ma non riscosse un numero di adozioni grande e, soprattutto, duraturo.
Nel Materiale e l’immaginario il criterio postmodernistico della elencazione e dell’accumulo, della giustapposizione, della ibridazione dei modelli culturali e della testualità infinita, la fa evidentemente da padrone. Ma si accoppia a una esigenza di precisione e di rigore. La cura dei dettagli è straordinaria. Ma la totalità si presenta poi come un caos troppo complesso per essere pienamente padroneggiato. La correlazione fra la “serie” dei dati economici, tecnologici e scientifici e la ”serie” dei percorsi dell’immaginario, tentata nei primi volumi sulla base delle omologie goldmanniane, tende ad allentarsi negli ultimi, quando questa chiave si rivela improduttiva: d’altronde i temi hanno una lunga durata che male si concilia con le innovazioni del “materiale” e possono prestarsi perciò a una tendenza destoricizzante. Lo studente e gli insegnanti sembrano potere usufruire di una immensa libertà di scelta; ma in realtà la chiave del labirinto è in mano degli autori che non fanno nulla per discuterla e per metterla criticamente a disposizione dei lettori. Le griglie tematiche non sono problematizzate, ma costituiscono un apriori indiscusso e indiscutibile. Perché, per fare un solo esempio, L’anguilla di Montale è interpretata come una poesia d’amore e non rubricata sotto il tema del vitalismo biologico e dell’animalità o quello della crisi dell’umanesimo cristiano (che potrebbe però essere illustrata – cosa esclusa apriori da questo manuale – solo sul piano diacronico descrivendo la evoluzione di Silvae da Iride a, appunto, L’anguilla)? Insomma, nel Materiale e l’immaginario, la situazione è la stessa dell’attuale postmoderno occidentale: il massimo di (apparente) libertà e il massimo di (sostanziale) autoritarismo coincidono.
Cosa resta, nei manuali di oggi, di questo progetto? I percorsi tematici resistono a stento, e sempre più periferici e striminziti.
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L’approccio antropologico è perlopiù eluso. Le letterature straniere non vengono nemmeno rammentate nelle indicazioni della “riforma” Gelmini. Nelle quali, poi, la letteratura si presenta come un insieme inerte di nozioni e di competenze neutrali e oggettive da imporre dall’alto. C’è un ritorno a percorsi storici lineari e unidirezionali, alla pratica dei “medaglioni” di autori e di movimenti. Di approccio interdisciplinare o pluridisciplinare si parla sempre di meno. D’altronde l’evoluzione stessa del manuale di Ceserani e De Federicis è significativa: esso è passato, nel corso degli anni novanta, da dieci a cinque volumi, progressivamente optando per soluzioni sempre meno radicali e più tradizionali.
Ci sarebbe da chiedersi cosa sia successo nell’ultimo quindicennio. In sintesi estrema risponderei: il postmoderno che si è affermato non è stato quello sognato da Ceserani. Per lui il postmoderno doveva essere, anzi sicuramente era, «uno dei più grandi cambiamenti, epocali e totali, che si siano avuti nella storia dell’umanità» (come si legge nella Introduzione a La ricerca letteraria e la contemporaneità, nono volume del Materiale e dell’immaginario). Non c’è stata solo la crisi della istruzione pubblica e, con essa, dell’intera società italiana. Piuttosto il cambiamento non ha avuto la profondità, le dimensioni e le direzioni che Ceserani aveva immaginato. Invece di una problematica complessità, nel mondo della cultura si è verificato il predominio – di marca nuovamente scientista - delle neuroscienze e del cognitivismo; invece del trionfo della leggerezza, è riaffiorata la pesantezza delle logiche finanziarie e delle crisi economiche; invece della fine delle contraddizioni, sono dilagati i conflitti bellici, sociali e razziali. Invece di una nuova epoca storica – quella dell’”uomo finalmente umano” preconizzata dal postmodernismo filosofico di Vattimo negli anni settanta e ottanta – sono riaffiorati i caratteri di una modernità che non si è mai estinta ma solo evoluta. E il postmoderno, evidentemente, è stato, ed è, solo una tappa di tale evoluzione.
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