Prendo spunto da alcuni fatti recenti apparentemente diversi fra loro. Il film “Perfetti sconosciuti” per la regia di Paolo Genovese, divertente e brillantemente recitato; il libro che sta per essere pubblicato a giorni, “Mio Figlio” di Sue Klebold madre di Dylan, uno dei due ragazzi che nel 1999 furono artefici della strage nella Columbine High School; e un altro incredibile omicidio da parte di due ragazzi romani che, sotto i fumi della cocaina, hanno ucciso crudelmente un loro amico.
Il punto in comune riguarda il livello di conoscenza che immaginiamo di avere verso amici, parenti e, in definitiva, verso noi stessi. La madre di Dylan, e il padre di Manuel Foffo, a detta loro, non avevano la minima idea di cosa potesse passare nella testa dei figli, descritti come ragazzi modello, non inclini alla violenza, di indole buona, nati e cresciuti in famiglie benestanti. Gli stessi ragazzi non hanno trovato una ragione plausibile per aver compiuto questi gesti, come fossero stati “agiti” da uno sconosciuto demone interno. Ugualmente nel film di Genovese, l’intreccio di tradimenti e la natura della personalità dei personaggi si svelano solo per un incauto gioco di società e, anche se le persone erano consapevoli dei loro segreti, sembravano spinti da confuse fantasie compulsive più che da vere e proprie scelte consapevoli.
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Tuttavia, molti comportamenti apparentemente improvvisi inviano, per un tempo più o meno lungo, segnali che faticano ad essere riconosciuti, difficile dire se per inadeguatezza di chi trasmette, di chi riceve o di entrambi. La nostra mente non è una monade, ma si relaziona con l’insieme delle altre menti attraverso il flusso continuo delle comunicazioni che ci coinvolgono. Siamo immersi in una sorta di spazio relazionaleche contiene segnali molto complessi per la loro tendenza a rivelarsi e negarsi allo stesso tempo, a incrociarsi, a depistarsi, a riproporsi. Segnali fra me e me e fra me e gli altri. A volte facciamo uno sforzo reciproco di comprensione, accettando di metterci in gioco, altre volte tendiamo a non voler comprendere e a non voler farci comprendere, perché rimanere nell’inconsapevolezza ci procura una sofferenza minore.
L’atto estremo di uscire allo scoperto, facendo scoprire un tradimento, o mettendo in atto gesti scenicamente catastrofici, sembra una indiretta assunzione di responsabilità, un tentativo di uscire da una sfera segreta diventata insostenibile, forse anche per ricevere una punizione, che comporta una espiazione liberatoria. Quotidianamente possiamo “voler uccidere” i nostri figli e i nostri genitori, ma, come ha insegnato Freud, un conto sono le fantasie un conto gli atti concreti.
Dire di nostro figlio che è un meraviglioso ragazzo, mentre quest’ultimo continua a mandare segnali smaccatamente contrari, è un esempio concreto di non riconoscimento, che può condurre ad una escalation pericolosa, come per dire: “che altro devo fare per poter essere finalmente riconosciuto nella mia alterità?”. Anche i genitori più affettuosi e protettivi possono tendere, nel segno dell’amore, a non rispettare le autonomie dei figli. Piccoli o grandi “omicidi della personalità altrui”. Accettare questa evidenza è il primo modo per superarla e potrebbe aiutarci, per intrepretare e gestire il fenomeno epocale che stiamo attraversando: un mondo multietnico e multiculturale dalle palesi diversità, che potrà trasformarsi in una grande risorsa se scegliamo (e ci diamo gli strumenti per poterlo fare) la possibilità di comprendere e di essere compresi nella diversità delle nostre rispettive culture, oppure in una possibile rovina se espelliamo la diversità dell’altro perché mette in discussione la nostra identità, né più né meno come a volte tendiamo a fare con le nostre mogli, i nostri mariti, i nostri figli e i nostri genitori.
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