Io non sono razzista, ma...". "Se parlo è perché li conosco". "Non vorrei essere razzista, ma altri mi costringono ad esserlo". Fin qui siamo al discorso retorico, perché "razzista" è una etichetta che pochi si vogliono attribuire.
Una sorta di introduzione che serve a dare la stura all'odio che cova: "Ribelliamoci!", "buttiamoli fuori a pedate", "andrebbero tutti sterminati", "la pena di morte ci vuole!". Non esiste una Rete dell'odio, ma sarebbe difficile negare che internet, offrendo a tutti la possibilità di esprimersi, abbia dato maggiore visibilità al fenomeno dell'hate speechverso migranti, rifugiati e minoranze.
Cosa possiamo fare per isolare chi impreca, offende, usa violenza verbale contro l'altro, lo straniero, il diverso? Le leggi attuali sono sufficienti a tutelare i cittadini? I media hanno una responsabilità? Esistono regole codificate per tracciare una cesura tra la libertà di parola e l'offesa? Quali sono i limiti invalicabili? C'è molta confusione come dimostra questo post, uno dei tanti, sopravvissuto in calce a un articolo senza nessuna moderazione o intervento della redazione: "... devi stare zitto lurido extracomunitario zingaro bastardo, ve dovrebbero mette tutti dentro i forni!!!! torna a quel lurido paese tuo morto de fame magna patate!!! Italia a L italiani!!!!".
LA RICERCA
A fare il punto sulla situazione cercando di mettere in luce lacune e responsabilità, ma anche le pratiche migliori, la prima ricerca italiana sull'hate speech, giornalismo e migrazioni dal titolo significativo: "L'odio non è un'opinione". Il lavoro, realizzato dal Cospe nell'ambito del progetto europeo contro il razzismo e la discriminazione sul web, " Bricks – Building Respect on the Internet by Combating hate Speech ", è stata presentata presso la Federazione Nazionale della Stampa a Roma in vista della giornata mondiale contro il razzismo (21 marzo).
IL CASO ITALIANO
I dati, purtroppo, non sono confortanti: xenofobia, islamofobia, discorsi antisemiti e razzisti sono in crescita e, complice la grave crisi umanitaria che ha investito i paesi europei e balcanici, ha assunto una rilevanza particolare nel corso del 2015. Non solo sui social media, ma anche nei commenti dei lettori a margine degli articoli su testate nazionali, nel 2014 sono stati rilevati 700 casi di intolleranza tra post diretti e condivisioni.
Ma sarebbe riduttivo restringere il campo ai soli lettori. Dall'analisi emerge una preoccupante caratteristica tutta italiana, che i frequentatori dei social network ben conoscono, e che vede personaggi pubblici, politici, uomini di potere e gli stessi giornalisti criminalizzare i migranti con interventi, slogan e affermazioni discriminatorie e xenofobe. Questa tipicità, che rivela una mancanza di cultura e di cultura digitale in chi dovrebbe essere d'esempio, rende ancora più difficile tenere sotto controllo un fenomeno che si alimenta spesso delle scintille provocatoriamente o inconsapevolmente innescate da altri.
CULTURA DIGITALE
Il fenomeno richiede una riflessione sulla cultura digitale, anche dei professionisti, e un ripensamento radicale del lavoro giornalistico. Fino a venti anni fa il compito di chi fa informazione poteva dirsi concluso con il punto in calce all'ultima frase del pezzo. Stampa e diffusione erano mansioni affidate a altri soggetti. Per quanto riguardava i lettori, dissenso e commenti erano piuttosto affari loro. Difficilmente trovavano spazio nella rubrica delle lettere. Ma quella era l'era dei mass media. Oggi lo scenario è completamente cambiato.
Nell'era dei personal media l'articolo ha una vita oltre il punto. Viene commentato sul sito, condiviso (distribuito) sui social media dove è oggetto di reazioni, approfondimenti, correzioni. Una conversazione che non può essere abbandonata a se stessa, ma deve essere seguita dalla redazione e dallo stesso autore. Servono nuove figure professionali: social media editor, community manager, content curator. Ma soprattutto serve una nuova cultura giornalistica diffusa che compenetri tutta la redazione senza se e senza ma. Se dieci anni fa era improbabile fare un giornale stampato senza comprendere le dinamiche del digitale, oggi appare un suicidio programmato.
L'ODIO E LA LEGGE
Se culturalmente ci scopriamo in pesante ritardo rispetto alla società digitale, le cose non vanno meglio sul piano giuridico. In Italia non abbiamo una legge specifica sull'hate speech. Nei casi più eclatanti ci si affida così a una serie di norme, ereditate dal secolo scorso, che puniscono i reati di incitamento all'odio razziale, l'ingiuria, la minaccia, la diffamazione.
Negli ultimi anni non sono mancati tentativi di regolamentare la materia in modo più organico. Nel maggio 2015 il Senato ha approvato il disegno di legge "Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno delcyberbullismo ". Nel luglio scorso, per iniziativa della presidente della Camera Laura Boldrini, è nata la Carta Italiana dei Diritti di Internet, il cui scopo è indicare principi e valori di alto livello nei diritti e nei doveri nell'accesso e nella fruizione di Internet. A tale proposito, l'articolo 13 afferma che se da una parte "non sono ammesse limitazioni della libertà di manifestazione del pensiero", dall'altra "deve essere garantita la tutela della dignità delle persone da abusi connessi a comportamenti quali l'incitamento all'odio, alla discriminazione e alla violenza".
CATTIVI MAESTRI
In questo contesto, la politica spesso non sembra essere attrezzata per dare il buon esempio. Così i giudici sono stati chiamati più volte a pronunciare sentenze contro i comportamenti illegali. Ne sa qualcosa Flavio Tosi, sindaco di Verona, condannato nel 2009 con sentenza definitiva della Cassazione a due mesi di reclusione per "propaganda di idee razziste".
Il tribunale di Padova ha invece condannato nel 2011 un consigliere comunale della città a 4.000 euro di multa e 6.000 euro di risarcimento alle parti civili per aver promosso sulla propria pagina Fecebook "idee fondate sull'odio razziale e istigazione a commettere atti razzisti".
Nel 2013 lo stesso tribunale ha condannato a un anno e mezzo di reclusione una consigliera di quartiere di Padova, poi espulsa dalla Lega Nord, per istigazione, sempre su Facebook, alla violenza nei confronti dell'allora ministro per l'Integrazione Cécile Kyenge. La Corte di Cassazione si è spinta anche oltre con la prima sentenza che ha riconosciuto l'associazione a delinquere costituita tramite il web, l'articolo 416 del Codice Penale, nei confronti dei gestori del sito neonazista Stormfront condannati a tre anni di reclusione. Infine una recente sentenza della Cassazione ha stabilito che l'offesa rivolta a una persona tramite un post pubblicato su Facebook può essere punita con il reato di difamazione aggravata , come avviene per la stampa, riconoscendo l'ormai ampia possibilità di diffusione dei post affidati ai social network.
I MEDIA IMPREPARATI
Le conclusioni della ricerca non sono confortanti anche per quanto riguarda i siti di informazione. "Nei casi rilevati – scrivono gli autori del Cospe – non abbiamo notato un uso frequente di strumenti di moderazione da parte delle redazioni giornalistiche, nemmeno quando il linguaggio si è fatto pesantemente offensivo". La prassi più diffusa è di rimuovere il messaggio offensivo, ma manca quasi sempre un intervento esplicito di un moderatore che riporti la discussione "su toni accettabili o che richiami i lettori a un uso corretto dello spazio di commento".
Dovrebbe essere invece compito della redazione la valorizzazione degli interventi più obiettivi e consapevoli per monitorare la qualità del dibattito e guidare il tono della conversazione. Insomma, se i lettori hanno la sensazione che dall'altra parte non vi siano interlocutori che li seguono, intervengono e interagiscono, la deriva delle esternazioni appare piuttosto inevitabile.
La ricerca ha coinvolto le principali testate italiane con l'obiettivo di fare emergere le migliori pratiche di prevenzione e gestione dei commenti, soprattutto in relazione al fenomeno dell'hate speech. Dalle interviste emergono posizioni diverse e, in alcuni casi, anche opposte: da chi ritiene che si debba lasciare la massima apertura in nome della libertà di espressione, a chi è favorevole a intervenire con incisività all'interno della community dei lettori. Per tutti sembra condiviso il principio che si debba accettare "un linguaggio più ampio nei commenti dei lettori rispetto a quello che è ammesso negli articoli scritti dalla redazione".
Per alcuni la prima responsabilità è proprio della del giornalista e del modo in cui si scrive e si segue la notizia nella sua vita all'interno del sito e sui social media. Non c'è dubbio che il modo in cui i giornalisti interpretano la professione e lo stile con cui raccontano una storia contribuiscano a "selezionare" un pubblico di riferimento. Gli approfondimenti, le inchieste, il tono di voce scelto sono messaggi ai quali il lettore tenderà a conformarsi.
Sulle pratiche di gestione dei commenti sono varie le politiche adottate. Il Fatto quotidiano ha optato per la pre-moderazione passando al vaglio tutti i commenti per l'approvazione prima della pubblicazione. La Stampa ha invece deciso di chiudere il commenti sul sito per concentrare gli sforzi di condivisione e moderazione sui vari social network.
Anche sui soggetti incaricati della moderazione le scelte sono diverse: si va dalla gestione interna affidata agli stessi giornalisti a chi si affida a team esterni e agenzie specializzate. Resta il fatto che una gestione dei social e della community trasversale a tutta la redazione, con i giornalisti in prima linea a rilanciare le informazioni e a gestire i commenti, appaia la più idonea, per quanto più impegnativa, a mantenere il "tono di voce" della testata che abbiamo visto essere il primo requisito per ottenere un feedback positivo sullo stesso piano da parte dei lettori. Significativa anche la prassi di coinvolgere la community con la richiesta di segnalare e isolare le provocazioni. Una pratica incoraggiata anche dalla campagna#nohatespeech , promossa dall'Associazione Carta di Roma, European Federation of Journalists e Articolo 21, volta a contrastare la diffusione dell'odio come responsabilità etica del giornalismo.
In un mondo in rapida e costante trasformazione è sempre più necessario definire le regole d'ingaggio in modo chiaro e trasparente, "riservarsi il diritto di cancellare i commenti e bannare gli utenti, qualora violino le regole stabilite chiaramente dalla policy". Su questi e tanti altri aspetti siamo ancora molto indietro. Ma la cosa migliore che forse possiamo fare è provare a lavorare tutti insieme, giornalisti e lettori, per costruire una cultura digitale condivisa. In gioco ci sono la qualità e la reputazione della testata. E il futuro dell'informazione di cui, su carta o web poco importa, ci sarà sempre più bisogno.
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