e recenti polemiche sulla gestazione per altri (Gpa) hanno riaperto un dibattito antico sulla maternità che, reso ancora più complesso dalle nuove opportunità medico-scientifiche, vede oggi contrapporsi due posizioni difficilmente conciliabili. Da un lato, c’è chi insiste sul dato biologico: è madre colei che, per natura, concepisce e porta avanti una gravidanza; è madre colei che ospita nel proprio corpo una vita e accoglie questo dono senza «se» e senza «ma».
Ma è madre colei che, partorendo in maniera anonima, affida il figlio alle istituzioni affinché il bambino sia poi adottato, decidendo così che non può o non vuole diventare madre? Dall’altro, c’è chi si concentra solo sull’assunzione di responsabilità e considera che la maternità abbia poco a che vedere con la genetica e con la natura: non è madre chi partorisce, ma chi si occuperà del figlio una volta che questa nuova creatura, bisognosa di tutto, comincerà a chiedere cura e amore. Ma che cosa resta allora di quel corpo che «siamo» e che, volenti o nolenti, «c’è, c’è e c’è» come scriveva la poetessa polacca Wislawa Szymborska?
In realtà, quando si parla della maternità, è tutto molto complesso. Anche semplicemente perché è uno di quegli eventi che costringe ogni donna, prima o poi, a fare i conti con quello che «ha» e quello che «non ha», quello che «è» e quello che «non è». Ma per convincersene, forse, è meglio partire dall’inizio. E ricordare che il rapporto che ognuno di noi ha con la propria corporeità è sempre ambivalente e contraddittorio. Il corpo è certamente ciò che ciascuno di noi «è», ma è anche qualcosa che si «ha». È ciò attraverso cui ogni essere umano esprime parte della propria unicità e della propria soggettività, ma è anche un oggetto materiale che, con i propri limiti e le proprie mancanze, ci ricorda che nessuno è il mero risultato di una combinazione di geni. Noi siamo anche, e forse soprattutto, il frutto di una storia, la conseguenza di un desiderio, il risultato di attese e sogni, speranze e delusioni, frustrazioni e aspettative. Allora è ovvio che non si nasce senza l’incontro del «femminile» e del «maschile», ossia di ovuli e di spermatozoi. Ma è anche ovvio che non si cresce e non si ha accesso alla propria umanità senza il desiderio profondo di chi, diventato padre o madre, cerca di trasmetterci il senso dell’esistenza. Un desiderio mai scevro di egoismo, certo! — dietro il desiderio di maternità o di paternità c’è sempre il bisogno di colmare un vuoto o di trasmettere certi ideali, di veder realizzate alcune aspettative o di riparare la propria storia personale. Ma un desiderio che, pur con tutti i suoi limiti, è necessario all’esistenza. A meno di immaginare che basti essere nutriti e accuditi perché poi la vita non scivoli nel vuoto del non senso. Cos’è allora veramente la maternità? Una scelta consapevole? Un’occasione naturale? Un diritto che giustifica ogni mezzo, compresa la strumentalizzazione del corpo altrui?
Quando Kant spiegava la differenza che esiste tra le persone e le cose diceva che le persone, a differenza delle cose che hanno un prezzo, non hanno mai un prezzo, ma sempre una dignità. Kant, però, diceva anche altro. E spiegava bene che questa dignità non esclude mai del tutto la possibilità della strumentalizzazione. C’è sempre una dose di strumentalizzazione quando si ha a che fare con gli altri. Anche quando li si ama. Anzi, soprattutto quando li si ama, visto che dicendo «ti amo» si tratta automaticamente l’altro come un «oggetto» del proprio amore. Basta però che quest’«oggetto» resti al contempo «soggetto» affinché se ne rispetti la dignità. E che amandolo per quello che è, senza cioè domandargli di cambiare o di adeguarsi, gli si permetta di essere sempre «altro» rispetto alle nostre aspettative e alle nostre domande. «Altro», e quindi soggetto anche lui del proprio amore e del proprio desiderio. «Altro», e quindi persona. Ebbene, nel caso della maternità, il ragionamento dovrebbe essere lo stesso: si è madre quando si riconosce e si accetta un figlio per quello che è, quando lo si accompagna nella crescita affinché possa pian piano scoprire il senso della propria vita, quando si è lì, presenti e accudenti, per raccoglierne la vita. Cosa che è possibile sempre e solo quando c’è desiderio di maternità. Anche se (e quando) il corpo non segue, non aiuta, si blocca. E allora la medicina ci aiuta a trovare il modo non tanto per «guarire» la sterilità, quanto per trasformare la «sterilità biologica» in «fecondità simbolica». Talvolta anche grazie all’aiuto di un’altra donna. Senza per questo negarne il ruolo o banalizzarne l’importanza.
La lingua francese, in questo, è forse più sottile di quella italiana, visto che quando si riferisce alla genitorialità utilizza due termini: «geniteur», che vuol dire «genitore biologico», e «parent», che vuol dire «padre» o «madre» anche in assenza di legami biologici o di sangue. Un conto, d’altronde, è mettere al mondo un figlio; altro conto, è diventarne la madre o il padre. Un conto è avere un legame genetico con la creatura che nasce; altro conto è accompagnarlo, coccolarlo, consolarlo, talvolta anche sgridarlo… in poche parole, permettergli pian piano di «tenersi su» da solo, come spiega bene il pedopsichiatra D. W. Winnicott. Tanto più che, come accade in alcuni Stati che hanno legiferato sulla Gpa, una donna che si presta a questo tipo di pratiche dovrebbe sempre essere già madre e non dovrebbe mai trovarsi in una situazione economica tale da vedere nella Gpa l’unica opportunità per il sostentamento. Una forma di dono, quindi. Proprio come il dono di un rene o di un pezzo di fegato, sapendo che i rischi che si corrono sono importanti, ma che è grazie al proprio dono che si potrà salvare una vita. Oppure come il dono di ovuli, che spinge alcune donne a cure di ormoni molto invasive pur di permettere ad altre donne di diventare madri. Ma questo lo sa bene solo chi, come mostrano molte ricerche fatte in Europa sulle donatrici o sui donatori, è stato confrontato al dramma della sterilità altrui. E chi, avendo avuto la chance di ritrovarsi incinta senza sforzi – questo sì che è un dono! – decide a sua volta di regalare questa gioia. Non un dono di un figlio, quindi. Solo il dono ad altre persone della possibilità di diventare mamme. Certo, la ferita dell’assenza di legami biologici resterà per sempre. È inutile negarlo o far finta di nulla. Ma non sarà questa ferita nel corpo a impedire a queste persone di raccogliere la vita dei propri figli evitando che scivoli, come ho già detto, nel vuoto del non senso. Anzi. Forse cercheranno di farlo meglio di chi, senza sforzi e talvolta anche senza desiderio, si ritrova incinta. Automaticamente «madre».
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