Un «Bilancio di Competenze» (ma non era meglio, semmai, delle competenze?) è quello che ogni docente neo-assunto in base ai recenti provvedimenti del governo Renzi è chiamato a redigere dal Ministero dell’Istruzione in questi giorni. È un testo, si legge nella prescrizione ministeriale, inteso a invitare ogni docente a «descrivere e sintetizzare le ragioni del proprio posizionamento rispetto ai livelli di competenza percepiti». Ovvero, detto in italiano parlato, uno strumento perché ogni docente valuti le proprie conoscenze circa ciò che insegna nonché la propria capacità d’insegnamento, confessando le proprie eventuali inadeguatezze. Qualcosa, insomma, che — se non fosse nota la natura inoffensiva della ministra Giannini — potrebbe ricordare la pratica in uso nei regimi comunisti di far redigere a ogni militante sospetto di qualche infrazione un rapporto minuzioso, il più minuzioso possibile, circa il proprio operato.
Ma il Miur non è la Ghepeù naturalmente. È una benevola istituzione democratica che si preoccupa anzi di fornire all’indagato — non si tratta forse di un’indagine? — le Linee Guida per compilare il suddetto «Bilancio di Competenze». Siamo così informati che le «competenze» di cui si tratta si raggruppano in tre «Aree» (Didattica, Organizzazione, Professionalità), ognuna delle quali si articola a sua volta in «Ambiti di competenze», «a loro volta scanditi in Descrittori» (non è chiaro di che cosa si tratti: si dice solo con un certo orgoglio che lungi dall’essere stati tirati fuori da un cappello a cilindro, sono «derivati dalla letteratura nazionale e internazionale») . Al termine di questa odissea redazionale il Bilancio sarà finalmente inserito in un «portfolio formativo» che consentirà di «precisare gli elementi sui quali far convergere l’attenzione del tutor e del neo- assunto nella fase Peer to peer nella elaborazione del portfolio stesso». Chiarissimo, no?
Per il docente neo-assunto inizia a questo punto, tra gergalismi criptici e vuote ridondanze verbali (anche bizzarri neologismi: che cosa sarà ad esempio «l’agito» su cui si è invitati a riflettere? «quanto è stato fatto»? ) il calvario delle domande. Per quanto riguarda la didattica, l’indagato «ritiene di avere una conoscenza dell’epistemologia disciplinare adeguata a sostenere le sue scelte didattiche?», «ha una visione olistica delle competenze da sviluppare?», è abbastanza informato «per elaborare un piano personale che favorisca l’inclusione?». Il neo-assunto va messo con le spalle al muro: «ritiene di riuscire a proporre attività nelle quali gli allievi diventino protagonisti di processi di ricerca per costruire conoscenze e/o risolvere problemi?», «ritiene di avere un’adeguata conoscenza delle tecniche e degli strumenti per proporre una valutazione che potenzi le capacità di ciascuno allievo di progettare e monitorare il proprio apprendimento?»(mi chiedo come possa qualcuno «progettare il proprio apprendimento» non sapendo, come ogni studente immagino non sappia, che cosa dovrà apprendere: ma lasciamo perdere).
Non è facile, come si vede, fare l’insegnante in Italia. Bisogna ad esempio «progettare e gestire situazioni nelle quali gli allievi siano impegnati nel costruire conoscenza attraverso processi collaborativi e cooperativi, anche svolgendo attività d’insegnamento reciproco»; oppure «attivare situazioni didattiche che presentino sfide di conoscenza, o di produzione, o di risoluzione di problemi», e ovviamente «gestire la condivisione con/tra gli allievi per stabilire regole condivise o per prendere decisioni relative al funzionamento scolastico» ( mi sembra notevole il «gestire la condivisione per stabilire regole condivise»).
Poi naturalmente c’è «la partecipazione». Ritiene ad esempio il neo-assunto «di avere chiarezza sul concetto di inclusione e sulle sue implicazioni in termini di progettazione collegiale?», eh? lo ritiene? E come la mettiamo con la capacità di «innescare ed avvalersi di attività di peer review e peer learning tra colleghi»? Non pretenderà mica di fare tutto da solo, si spera! Risponda allora: «ritieni di sapere partecipare produttivamente all’elaborazione di progetti di gruppo che tenessero conto ( sic! “tengano” era forse meglio) delle posizioni individuali per giungere a soluzioni collettivamente accettate?». Bisogna sapere infatti che da molto tempo la bestia nera del Miur è l’individualismo. Tutto, infatti, deve essere sempre pensato, organizzato, progettato, collettivamente, insieme a qualcun altro, colleghi, organi, genitori, asl, e chi più ne ha più ne metta. Così come tutto deve sempre essere «partecipato»: l’ideologia della scuola italiana è una sorta di permanente soviet casareccio, di consiliarismo «de noantri».
Le cui parole d’ordine, «coinvolgimento» e «riunioni», sono martellate infinite volte in questo documento. «Ritieni di saper attuare strategie di coinvolgimento dei genitori nella vita della scuola?» inquisiscono ad esempio le Linee Guida. «Contribuisci — incalzano — alla gestione delle relazioni con i diversi interlocutori (parascolastici, di quartiere, associazioni di genitori, insegnamenti di lingua e cultura d’origine)?». Il tutto ovviamente — come dubitarne? — a maggior gloria della democrazia, per «contribuire al superamento di pregiudizi e discriminazioni di natura sociale, culturale o religiosa»; obiettivo in vista del quale appare più che sensato domandare al neo-assunto: «ritieni di avere chiarezza sui saperi che caratterizzano il futuro cittadino o sulle problematiche educative più frequenti nel panorama sociale odierno?».
Arrivato a questo punto dell’articolo il lettore si aspetterà di leggere, come accade di solito, alcune considerazioni finali dell’autore. Me ne asterrò: per carità di patria e per quel minimo di rispetto che ancora nutro per le istituzioni del mio Paese e per coloro che vi lavorano. E infine perché mi sento talmente soffocare dalla rabbia e dal disprezzo culturale per il documento in questione che ho paura delle parole offensive e di scherno che mi verrebbe sicuramente da usare. Una sola osservazione voglio fare per il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, oltretutto professoressa di glottologia. Nella vita normale, parlando normalmente, nessuno chiede a qualcun altro «hai chiarezza?» o «hai conoscenza?» Gli italiani dicono: «ti è chiaro?» «conosci bene?» «capisci?» «sei pratico?». Nell’ambito della scuola e dei suoi documenti invece no: si parla un’altra lingua. Ebbene, signor ministro, non le sembra degno di qualche riflessione che proprio mentre vuole e crede di «aprirsi alla società», di diventare «collegiale», «collettiva» «condivisa» e naturalmente «democratica» come si conviene , proprio in quel momento la scuola si rinserri nella fortezza di una lingua criptica e involuta, incomprensibilmente gergale, si affidi a formule consumate e ormai vuote, ad arabeschi concettuali, che forse stanno a indicare null’altro che la sua abissale distanza dall’Italia reale (sospetto dai suoi stessi docenti) nonché dal senso comune parente stretto del buon senso?
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