C’è una comunità in lotta per la terra e c’è il capitale in lotta per il profitto. È la storia di sempre, sempre più quotidiana nel mondo globalizzato e neocoloniale, che si declina in questi mesi lungo le latitudini tropicali: a Santa Clara de Uchunya, nella regione di Ucayali in Perù.
Qui un bel giorno la comunità indigena Shipibo-Konibo si sveglia sotto le ruspe che stanno abbattendo gli alberi della foresta pluviale primaria, sono quelle del gruppo agro-alimentare internazionale Plantaciones de Pucallpa SAC, una delle 25 aziende presenti in Perù, registrate in paradisi fiscali offshore e connesse all’articolata rete controllata da Dennis Melka, fondatore della società Asian Plantations, nota per il selvaggio disboscamento nella regione del Sarawak in Malesia.
La società Pucapalla nel 2012 aveva acquisito i diritti sulle terre indigene attraverso un accordo segreto siglato con il Governo della regione dello Ucayali, che ha prodotto in tre anni la distruzione di oltre 5200 ettari della foresta primaria di Santa Clara. Le conseguenze sono oggi devastanti e minano la vita stessa degli oltre 500 abitanti del villaggio: in un’economia di sussistenza, basata su caccia, pesca e raccolta delle risorse forestali, questi vedono la progressiva erosione del diritto alla terra (detengono oggi solo circa 200 ettari di terreno) e dell’accesso alle risorse principali, come l’acqua, oggi ridotta a un unico corso potabile in conseguenza dell’inquinamento del suolo generato dalla monocoltura.
A oggi il disboscamento complessivo delle foreste peruviane può essere calcolato sui 10,5 milioni di ettari. Le responsabilità, a livello locale, risiedono nelle politiche industriali e statali che hanno favorito, oltre alla costruzione di strade e allo sviluppo agricolo del Rio delle Amazzoni attraverso incentivi al credito, il proliferare di concessioni per la coltivazione dell’olio di palma, che hanno portato alla distruzione di più di 100.000 ettari di foresta primaria, con la legittimazione, anche internazionale, della sostituzione delle piantagioni di coca.
La straordinaria diffusione della coltura della palma da olio nei paesi tropicali è frutto delle politiche dettate dai paesi occidentali a beneficio dei grandi gruppi industriali. L’Unione Europea ad esempio ha fissato una percentuale obbligatoria del 10% di impiego di energia rinnovabile destinata all’energia e al trasporto.
L’enorme impatto ambientale e umano (decimazione delle popolazioni indigene) dato dalle monocolture di palma da olio e denunciato da centinaia di attivisti, ambientalisti e membri di comunità indigene dall’Indonesia al Guatemala, ha trovato opportuna copertura grazie all’intreccio tra interessi industriali, politici e alla complicità delle grandi Ong, tra cui il Wwf. Tale convergenza di interessi ha dato vita a un sistema di certificazioni, quale la Rspo (Round Table on Sustainable Palm Oil), che – attraverso un adeguato maquillage verde che ne fissa gli obiettivi nella limitazione degli danni ambientali e sociali – continua di fatto a sviluppare sempre più il business dell’olio di palma.
Di fronte ai bulldozer che avevano iniziato la deforestazione di Santa Clara, la reazione della comunità Shipibo è stata immediata e si è mossa efficacemente su un doppio binario: da un lato l’azione diretta, come l’occupazione delle terre acquisite dalla multinazionale, dall’altro quella indiretta come la confisca dei macchinari della Plantaciones de Pucallapa e un lavoro di lobbying verso le autorità locali e il Governo centrale. Così la comunità Shipido ha ottenuto il 2 settembre scorso la sospensione di tutte le operazioni di deforestazione per mezzo di una sentenza del Ministero dell’Agricoltura, che le ha dichiarate illegali per assenza di ogni permesso ambientale.
Su scala locale la lotta della comunità Shipibo raggiunge così un primo grande risultato, aprendo una doppia contraddizione all’interno delle istituzioni peruviane: da un lato perché la sentenza ha dichiarato illegale l’azione di deforestazione in cui era coinvolto lo stesso Governo (sebbene strategicamente la condanna sia stata circoscritta alla sola società Pucallapa, con la completa omissione delle implicazioni governative nella vicenda); dall’altro ha evidenziato la palese violazione da parte del Governo della legge nazionale che vieta in Perù ogni tipo di conversione della foresta primaria, la cui percentuale era altissima nella regione di Santa Clara, arrivando a superare l’80%.
Anche se in tanti tra attivisti e rappresentanti di comunità sono stati oggetto di minacce e intimidazioni nei Paesi in cui la monocoltura è in forte espansione (solo in Perù tra il 2002 e il 2014 sono stati uccisi quasi sessanta difensori dei diritti umani e ambientali, tra cui il caso più noto è quello di Edwin Chota, appartenente alla comunità indigena Ashaninka, assassinato nel 2014 insieme ad altri tre leader del villaggio di Soweto in Ucayali, omicidi per cui non ci sono ancora condanne) la vittoria della comunità Shipibo-Konibo rappresenta un segnale importante che, mentre ci dimostra che Davide può ancora vincere contro Golia almeno una battaglia, ci fornisce al contempo preziose chiavi di lettura sul rapporto, sempre più complesso nel capitalismo XXI secolo, tra uomo e natura.
Il solco che si è finalmente aperto, grazie alla battaglia della comunità Shipido, ha una valenza politica dalle ampie ripercussioni, sia locali, in quanto fa riflettere sul dato che vede riconosciuti come terre indigene in Amazzonia peruviana soltanto 15 milioni di ettari, corrispondenti al 20% della sua superficie, (quella di Santa Clara è infatti solo una delle oltre 1174 comunità indigene che in Perù sono ancora in attesa di un completo riconoscimento dei propri diritti da parte del governo centrale), sia nazionali, evidenziando la necessità di approfondire il nesso tra il mancato riconoscimento dei diritti indigeni e il sempre più difficile obiettivo della deforestazione zero entro l’anno 2020, assunto in sede internazionale dal Governo peruviano.
Con la chiarezza della prassi, dalle geografie culturali di quel grande laboratorio politico che è l’America latina contemporanea, gli Shipido ci mostrano oggi quanto l’adagio di inizio millennio “pensare globale e agire locale” sia ancora illuminante. E necessario.
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